SAVIANO, SI TORNA A PARLARE DEL CASO GOMORRA: DEI 'MA' E DEI 'DISTINGUO'
Data: Sabato, 13 gennaio @ 19:43:27 CET
Argomento: Cultura




(di Francesco De Core da Il Mattino del 12 gennaio 2007) -
Un gran libro, ma. Un’autentica rivelazione, ma. Un affresco potente, ma. Ecco la risacca del distinguo. L’avversativo che pesa, e più avversativi come mattoni fanno muro. Una brezza che s’ingrossa a vento. E che soffia contro Gomorra e il suo autore, Roberto Saviano. Il caso letterario dell’anno vecchio che si perpetua nell’anno nuovo, lo scrittore giovane (sotto i trenta) che - minacciato - ora vive protetto: da totem della lotta anticlan (con il picco delle parole accorate di Umberto Eco al Tg1 e della intervista di Gianni Riotta in anonima campagna con ruderi industriali) alla invisibilità, alla difesa di sé nell’ombra con l’eccezione di qualche incursione a mezzo stampa. Strano destino, quello di Gomorra. Come lampo ha attraversato l’editoria, facendo cenere di molta carta e di molte cattedre; e l’incendio che ha scatenato non ha eguali nel passo convulso degli ultimi anni. Tanto che la storia stessa dell’autore - la mano e l’occhio inscindibili dal narrato — ha inevitabilmente portato a compimento il processo di beatificazione. Gomorra è finito oltre Gomorra, e Saviano oltre Saviano. Giusto o non giusto, è andata così. Ma nel cielo di Gomorra sono comparse le prime nubi. E forse non è un caso che sparute gocce (certi raid sul web) siano diventate, d’improvviso, un acquazzone. Di critiche. E finché si tratta di rilievi fondati - ci mancherebbe - tutto è lecito: l’unanimismo, si sa, non è proprio il sale del dibattito. Accettabile (dall’alto del suo magistero) quel che sostiene Raffaele La Capria. Il quale - pur definendo Gomorra un magnifico reportage - ha preso le distanze dall’orribilismo di Saviano, e dal suo malapartismo: «Vi è implicita una certa volontà di stupire per cui molto spesso il vero viene arricchito e il vero e il verosimile si confondono», ha detto al Corriere del Mezzogiorno. Rispettabile il fossato che il volterriano Alessandro Baricco pone tra sé e Saviano («Gomorra è un libro che difenderei in ogni circostanza, ma devo aggiungere che non mi riconosco in quel tipo di approccio letterario»), salvo poi chiederci il motivo per cui debba ritenersi efficace (oltre che utile) la sua riscrittura liofilizzata dei drammi eroico/guerreschi dell’Iliade. Ben diverse appaiono le vellutate stroncature di Edoardo Sanguineti (al Mattino), vate avanguardista, e di Rosanna Bettarini (al Corsera), filologa fiorentina e neopresidente del premio Viareggio. Sanguineti sfiora il sublime dello snobismo - «Non ho letto Gomorra. Ne ho ascoltato alcuni brani durante una lettura pubblica dell’autore e francamente non ne ho avuto una grande impressione» - per poi tranciare a modo suo il nodo gordiano del rapporto tra inchiesta giornalistica e narrativa («Parlerei non tanto di una letteratura che torna al reale ma di una realtà che si fa racconto; ovvero di un piegarsi modaiolo al reale»). La Bettarini, invece, con tono vagamente liquidatorio, si rifà al premio Opera prima che Saviano ha ottenuto proprio al Viareggio: «Gomorra mi interessò moltissimo, ma qua e là mi sembrava sopra le righe, come se si volesse forzare le tinte su una materia in parte già nota». Non è una sconfessione, ma poco ci manca. Con sentore di pentimento. Insomma, se prima era d’obbligo il superlativo (qualche volta acritico, perché ha fatto tendenza citare Gomorra nei salotti buoni), ora pare necessario il distinguo. Persino cavilloso. Talvolta arrogante. Sembra quasi che ciò di cui ha scritto Saviano (il potere sterminato della camorra, non la libido di un adolescente) finisca in secondo piano rispetto al come la materia sia stata trattata. Forse alla società letteraria interessa più il tono, la costruzione della frase, il cesello, l’esposizione dell’io. E dunque il confine qui labile tra racconto e reportage. Non è casuale la circostanza che il libro-inchiesta compaia ora nelle classifiche della narrativa (francamente troppo), ora in quelle della saggistica. Certo, Saviano non ha aiutato i critici. Ha impastato col lievito di una scrittura gridata (ma sarà poi un male?) e persino barocca (nel senso di immaginifica) il corpo marcio della malavita che si nutre di sangue, droga e appalti. Ha messo in gioco la sua faccia e ha urlato. E se ha alzato troppo la voce, non è poi un delitto (per l’opera d’esordio di un ventisettenne). Semmai, Saviano ha aiutato i lettori. A capire più e meglio di prima il sistema camorra. Ed è merito (enorme) che cancella ogni macchia - piccola e di gioventù. Di peccati è fatto il mondo, e veniali sembrano quelli di Saviano. Che non meritava procedure da santo (neppure per la sua vicenda personale), come non merita ora la risacca del distinguo lezioso. Soprattutto se supponente. (13 gennaio 2007-19:42)





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