CASERTA,GIUSTIZIA E STAMPA:L'ESPRESSO PUNISCE GIUDICI E AVVOCATI 'NON ALLINEATI'
Data: Domenica, 04 settembre @ 21:24:55 CEST
Argomento: Giornali e Giornalisti


Un noto penalista del foro di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) finisce nel calderone dell'inchiesta che lo scorso luglio fece scattare alcune perquisizioni a casa di un magistrato e di alcuni avvocati. L'Espresso, imitando questa volta testate spesso criticate per aver diffuso intercettazioni e fascicoli giudiziari su integerrimi giudici ed avvocati, non ci pensa due volte e 'punisce' le toghe, che secondo esperti ed osservatori dell'informazione, non sarebbero 'allineati' o che avrebbero demolito inchieste presentate come mastodontiche. C'è però chi non c'entra proprio nulla, come anticiperà qualche testata, o altri citati de relato nel corso di telefonate o ancora possibili 'millantati crediti'.



Articolo tratto da 'L'Espresso'
autore: Marco Lillo

Valigette piene di banconote, mazzette nascoste nelle scatole da scarpe, orologi d'oro, persino quadri di Botticelli destinati ai magistrati. Quella che emerge dal racconto di Luigi Giuliano, il pentito più importante della camorra, è una storia di malagiustizia lunga vent'anni che ha per teatro il Tribunale di Napoli. Di fronte agli inquirenti il padrino di Forcella ha aperto il libro dei ricordi e non ha risparmiato nessuno: avvocati, poliziotti e soprattutto magistrati. Partendo dalle accuse del pentito, i carabinieri del Nucleo operativo di Roma hanno ricostruito un dossier di 300 pagine. Per mesi hanno intercettato i colloqui tra avvocati e magistrati napoletani e hanno scoperto un inquietante traffico di favori reciproci: figli dei giudici che finiscono alle dipendenze dei penalisti, raccomandazioni a parenti per avere incarichi dal Tribunale o per ottenere un occhio di riguardo nei processi. C'è persino la trattativa per salvare una squadra di serie C in cambio degli appalti per gli impianti di smaltimento dei rifiuti che soffocano la Campania, condotta da una giunta comunale rosso-verde e dall'ex presidente del Napoli calcio. L'inchiesta coordinata dai pm romani Italo Ormanni, Diana De Martino e Roberto Cavallone arriva fino alla Cassazione, dove è stato scoperto un commercio di informazioni più o meno riservate organizzato dai commessi e pagato dagli avvocati, non solo napoletani. Le informative dei carabinieri del Nucleo operativo di Roma, secondo quanto risulta a 'L'espresso', coinvolgono oltre a Gian Paolo Cariello, presidente dell'ottava sezione del Tribunale del riesame di Napoli, anche il pm Salvatore Sbrizzi (consulente negli ultimi anni della commissione parlamentare Telekom Serbia), il gip Fabio Viparelli e, in una posizione più defilata, anche il giudice Angelo Di Salvo. Luigi Giuliano e i suoi familiari raccontano di avere dato agli avvocati centinaia di milioni di lire da consegnare a Sbrizzi, Cariello e Viparelli. Tra i legali indagati, oltre all'ex presidente della camera penale partenopea Antonio Briganti ci sono anche l'ex deputato liberale Alfonso Martucci e il difensore storico della famiglia Giuliano, oggi alla guida di diverse società calcistiche campane, Francesco Maglione. Quando nello scorso luglio sono scattate le perquisizioni contro alcuni degli indagati, a Napoli è scoppiata una bufera: i penalisti sono scesi in sciopero, persino il procuratore generale Vincenzo Galgano ha difeso i colleghi. Galgano ha ricordato che "i pentiti sono un'arma a doppio taglio". E infatti le dichiarazioni dei collaboratori non sono una prova: in questo caso in particolar modo visto che nessuno, nemmeno Giuliano, racconta di avere mai consegnato soldi direttamente ai magistrati. Ma nel dossier dei carabinieri, secondo quanto 'L'espresso' è in grado di rivelare, vengono evidenziati numerosi riscontri in un quadro inquietante della giustizia napoletana fatto di "connivenze tra figure che dovrebbero essere antagoniste e che in realtà si sono dimostrate complici". Durante le intercettazioni ai militari è capitato così di ascoltare un magistrato che chiede a un collega di fare espatriare il suo maestro di tennis, sottoposto al soggiorno obbligato. O accade di registrare l'avvocato Briganti che si lamenta perché non ne può più dei magistrati che gli spediscono i figli per la pratica forense. E poi proprio l'avvocato Briganti vanta al telefono che il procuratore Ettore Maresca "è molto legato a noi perché due ragazzi me li ha mandati lui al mio studio". Silenzio parla Lovegino L'inchiesta nasce dalle accuse del boss Luigi Giuliano, detto Lovegino, contro tre magistrati: il presidente Cariello, il gip Viparelli e il pm Sbrizzi. Per Giuliano, la giustizia a Napoli era in vendita. Si poteva comprare anche la scarcerazione del boss arrestato per l'omicidio di Silvia Ruotolo, la giovane mamma uccisa per caso nel 1997 in un delitto che commosse l'Italia. Le accuse di Giuliano sono dettagliate e confermate dalla moglie, dal fratello e in un caso persino da un boss di un altro clan, Ciro Vollaro. Gli investigatori le prendono sul serio perché permetterebbero di dare un senso a vicende giudiziarie difficilmente spiegabili. Luigi Giuliano infatti era il re di Forcella. Aveva raccolto le cosche sotto l'egida della Nuova Famiglia e aveva vinto la guerra con Raffaele Cutolo. Eppure 'Lovegino' non si trovava dietro le sbarre. Talvolta finiva dentro giusto il tempo di presentare un ricorso che tramutava per incanto il cancello blindato di Poggioreale in una porta girevole. Giuliano scontava la sua pena a casa o al massimo in una clinica amica dove riceveva gli altri boss e curava i suoi malanni inesistenti. Oggi il boss racconta ai magistrati di avere pagato per quelle sentenze sorprendenti. Don Luigi ha scelto di parlare nel 2002, quando ha trovato sulla sua strada qualcuno che invece di mandarlo a Villa dei Gerani finalmente lo ha segregato nel 41 bis, il regime di carcere duro. Chiuso nella sua cella ha cominciato a ripensare ai bei tempi andati e ha offerto ai pm romani una lettura sconvolgente della sua storia. Il suo libro dei ricordi somiglia a un romanzo noir. Le mazzette per i magistrati erano consegnate dai camorristi agli avvocati dentro scatole di scarpe e valigie ventiquattr'ore. C'era persino un fondo cassa di un miliardo di lire per la corruzione dei giudici. Toghe e mazzette Il nome che ricorre più spesso nei verbali dei pentiti è quello del presidente dell'ottava sezione del Tribunale del riesame di Napoli, Gian Paolo Cariello, erede di una famiglia di notai, iscritto al miglior circolo di tennis di Napoli con villa a Capri e appartamento a Posillipo. Ma Luigi Giuliano parla anche di Salvatore Sbrizzi. Il pm anticamorra divenuto poi consulente della commissione parlamentare di inchiesta su Telekom Serbia, nei mesi delle intercettazioni era a caccia di una nuova collocazione in qualche altra commissione parlamentare, perché, come dice a un amico, "in Procura tira una brutta aria". Oggi l'ha trovata e lavora come consulente della commissione sulle Stragi nazifasciste impunite. Il boss punta poi il dito contro un magistrato dal look ben diverso dagli elegantissimi Sbrizzi e Cariello: il gip Fabio Viparelli veste casual e ha fama di garantista a 24 carati. Ha annullato tante ordinanze di arresto nella sua carriera, bocciando il lavoro della Procura. Ma secondo il boss Giuliano la ragione della sua scarcerazione nel 1994 è stata un'altra: "In quell'occasione versai complessivamente circa un miliardo e mezzo, sempre per il tramite dell'avvocato Francesco Maglione e dell'avvocato Anyo Arcella (ucciso dalla camorra nel 1996), destinati a Viparelli che emise due provvedimenti a distanza di pochi giorni l'uno dell'altro, il primo con il quale venni messo agli arresti domiciliari ed il secondo con il quale venni scarcerato". Giuliano però fu subito riarrestato. A quel punto, racconta Giuliano, "mi rivolsi alla mamma della camorra, Maria Licciardi, per corrompere il pm Sbrizzi". Il caso però era disperato. Secondo il pentito, Sbrizzi non poteva restare inerte di fronte alla scarcerazione: sarebbe stato "troppo eclatante". Fu il magistrato, racconta Giuliano, a trovare la soluzione: "Il dottor Sbrizzi venne convinto dai Licciardi e da mio cugino Ciro a presentare ricorso oltre il termine per salvare l'apparenza". Ancora più gravi le accuse rivolte al presidente Cariello. Secondo il pentito, il giudice sarebbe stato corrotto anche in occasione di alcuni processi celebri come quella contro il boss Giovanni Alfano per l'omicidio di Silvia Ruotolo. Il caso della donna innocente, uccisa da un proiettile vagante mentre teneva per mano la sua bambina, nel 1997 impressionò l'opinione pubblica nazionale. Giuliano descrive così l'esito di quel processo: "Alfano era detenuto per l'omicidio di Silvia Ruotolo ed era stato scarcerato dietro pagamento di un miliardo che l'avvocato Briganti aveva versato al presidente Cariello. Però nel momento in cui era arrivato alla matricola per la notifica dell'ordine di scarcerazione emesso dal Riesame, gli era stato notificato un altro mandato di cattura per lo stesso fatto... Briganti si giustificava dicendo che lui non poteva farci nulla perché otteneva con la corruzione la scarcerazione ma la Procura tornava ad arrestarlo di nuovo. Poi Alfano ha preso l'ergastolo". Un notaio per amico L'altro grande accusatore del giudice Cariello è Ciro Vollaro, il boss di Portici, ora pentito. Vollaro inizia il suo racconta dal 1977: "Venni arrestato e mio padre Luigi, tramite il notaio di Portici Del Vecchio, suo amico, intervenne presso Cariello e venni scarcerato con pena sospesa. Mio padre mi disse che aveva dapprima inviato un quadro - una natura morta del Botticelli - che Cariello restituì perché seppe che mio padre ci teneva particolarmente e quindi accettò poi un orologio in oro". Nel 1996 Vollaro finisce in galera e di nuovo si imbatte in Cariello: "Avendo visto che il presidente era Cariello, gli mandai un foglio sul quale avevo scritto 'nomino l'avvocato Olimpio Del Vecchio (che naturalmente non esiste in quanto è notaio) che le manda i saluti'. Nel giro di poco tempo il riesame mi revocò l'arresto. Il mio avvocato Giovanni Cappuccio rimase meravigliato e mi disse che non c'erano proprio i presupposti per quella revoca". Sentenze a sorpresa Che credibilità hanno le rivelazioni dei pentiti? Per appurarlo i carabinieri hanno studiato per mesi le carte impolverate scoprendo che "le dichiarazioni di Giuliano trovano un impressionante riscontro nei fatti giudiziari". Le decisioni di Viparelli "costituiscono una palese agevolazione giudiziaria in alcuni casi davvero sorprendente". Già allora, nel 1994, il pm si lamentò perché i provvedimenti di Viparelli aprirono le porte del carcere a don Luigi senza sentire nemmeno il pm "come prescritto". Non solo. Secondo il pm la motivazione addotta dal giudice per scarcerare il boss ("Non risultano altre pendenze a carico dell'indagato") era sbagliata. Anche i provvedimenti dei collegi presieduti dal giudice Cariello, secondo i carabinieri, erano anomali. Come è anomalo, secondo gli investigatori, che un pm esperto come Sbrizzi si faccia scappare il termine per impugnare la scarcerazione di un boss di prima grandezza come Giuliano. La parola a Cariello Le conversazioni e le telefonate di Cariello intercettate dall'Arma disegnano il ritratto di un giudice molto disinvolto. Il 28 maggio 2004, per esempio, Cariello chiama la segretaria e chiede di cercare un altro magistrato al Tribunale di sorveglianza per risolvere il problema del suo maestro di tennis: era sottoposto all'obbligo di soggiorno a Napoli per un reato, ma voleva ottenere il permesso per andare in Francia "per questioni sportive". Il presidente in persona si muove per far preparare l'istanza nel suo ufficio e per 'seguirla' poi con un paio di telefonate giuste, "perché il maestro è un uomo suo che garantisce lui". Venti giorni dopo Cariello disturba un giudice fallimentare napoletano, di nome Michelangelo, per chiedergli di fare avere altri incarichi (retribuiti) al figlio da parte dei colleghi della sezione fallimentare. E Michelangelo si mette a disposizione: "Certo, certo. È importante perché così può entrare nel giro come dire. degli incarichi". Un'altra volta si informa con una collega sulla composizione della Corte dei minorenni che avrebbe dovuto giudicare il figlio di un suo amico. E non manca una telefonata al capo di gabinetto del questore per sollecitare la polizia a eseguire velocemente uno sfratto a Roma contro l'inquilino del cognato di un altro magistrato. Il giallo dei conti in rosso Anche l'analisi dei conti correnti non migliora la sua posizione. Nei periodi in cui erano prese le decisioni care a Giuliano e agli altri boss, i conti di Cariello erano in rosso. "Alla data del 30 giugno 1997", scrivono i carabinieri, "registravano uno scoperto di 471 milioni di lire". E poi aggiungono: "Il tenore di vita del giudice supera di gran lunga le entrate". "I conti del magistrato registrano diverse volte il recupero di forti sofferenze in periodi nei quali da un lato non risultano introiti derivanti da importanti operazioni economiche (come ad esempio la vendita di immobili) e dall'altro risultano sorprendentemente compatibili con i provvedimenti giudiziari oggetto dell'indagine". Il giudice ha ricevuto un avviso di garanzia: il gip Zaira Secchi dovrà decidere se sospenderlo o meno dall'incarico. Cariello si è difeso sostenendo di potere provare fino all'ultima lira la provenienza di quei soldi. "La mia è una famiglia di notai", ha detto "e in questi anni ho venduto diversi immobili. Le accuse si basano su dichiarazioni del pentito Giuliano che ho più volte definito inattendibile nei miei provvedimenti. Non so quale tipo di riscontro potranno trovare anche perché a casa mia hanno trovato solo documentazione relativa a proprietà per svariati miliardi che ho venduto in questi anni per poter fare il magistrato onestamente". A favore di Cariello e degli altri indagati va ribadito che Giuliano non ha mai visto la consegna di un solo euro: il denaro era affidato ai suoi legali. Anche per questo, il procuratore generale di Napoli, Vincenzo Galgano nel difendere Cariello ha parlato di possibile millantato credito. Ma sul punto la moglie di Giuliano precisa: "Non credo che l'avvocato Maglione si prendesse i soldi per sé in quanto innanzitutto le scarcerazioni promesse avvenivano e anche perché anche altri avvocati del giro, per esempio Briganti, facevano riferimento ai medesimi magistrati, Cariello e Viparelli, anche per le esigenze di altri capi camorristici". La posizione di Briganti è la più controversa. Avvocato molto stimato, è stato chiamato in causa con dichiarazioni molto sfumate. Ma i carabinieri ne evidenziano i legami con i magistrati. Mi manda papà Il sogno dei giudici partenopei, almeno a sentire Briganti, sarebbe piazzare un rampollo nel suo studio. I carabinieri lo hanno intercettato mentre spiegava: "C'è un altro giovane di Castellammare. Tu li hai visti quei due giovani nuovi, no? E quello è il figlio del giudice Rossetti. Io l'altro mese, feci una riunione allo studio perché ormai non so più quanti cazzo ne siamo. E sto dicendo 'no' a un sacco di gente, perché qua va di moda far venire i figli, i cristiani allo studio mio. mi so' fatto nemici due giudici, me ne mandò un altro Quadrano e pure dovetti mandarlo indietro". Secondo i carabinieri Briganti si riferisce a Nicola Quatrano, proprio il giudice che ha condotto l'inchiesta sulla Tangentopoli campana e diventò protagonista di una polemica con il ministro Castelli per la sua partecipazione a una manifestazione no global nel 2001. Quatrano era nel corteo proprio per accompagnare uno dei suoi due figli. Il 26 maggio 2004 gli investigatori ascoltano un altro episodio dalla serie 'anche i giudici tengono famiglia'. Un collega di studio chiama Briganti sul telefonino: il giudice Gazulli quella mattina è una furia, non vuole concedere il patteggiamento a un assistito di Briganti. L'avvocato chiede al suo collaboratore: "Ma non è che dipende questo comportamento dal fatto che non gli ho detto di sì a far venire il figlio?". Non si conosce l'esito della causa. Di sicuro, quella stessa mattina, Briganti chiama Gazulli: i due fissano un appuntamento a studio per il figlio del magistrato. Il giudice chiude con una preghiera: "Avvocato io vi volevo chiedere questo: ma se voi ce la fate per seguirlo direttamente...". Non ti scordar di me A Briganti si rivolge anche il giudice Angelo Di Salvo, spesso in collegio con Cariello. Da tempo il magistrato ha il pallino dei computer e tenta inutilmente di ottenere la nomina a referente del Csm per l'informatica, ma il consiglio giudiziario continua a preferirgli un collega. Per questo prega Briganti di intervenire sul consigliere del Csm Giuseppe Di Federico, un membro laico in quota Forza Italia. "Dalle telefonate", scrivono i carabinieri, "emerge in modo evidente che il magistrato non si era fatto scrupoli a chiedere apertamente un'intercessione del legale per ottenere la nomina a referente informatico per il biennio 2004-2005". I carabinieri sottolineano "il tono quasi reverenziale da parte del magistrato che si mostrava ulteriormente in posizione subordinata, cioè di 'dipendenza' dal legale: 'Avvocato, vi siete scordato di me'". Gola profonda in Cassazione L'inchiesta sulle toghe napoletane è arrivata fino al palazzo della Cassazione. Non certo perché in un verbale Salvatore Giuliano parla di un presunto tentativo di corrompere il giudice Corrado Carnevale, un'accusa non riscontrata alla quale i carabinieri non danno seguito. La Cassazione entra invece nell'istruttoria per merito di un ignoto commesso, tale Stefano Giannantonio. Questa figura irrompe nell'indagine ad aprile del 2004, quando l'avvocato Martucci chiede a Giannantonio di conoscere in anticipo le motivazioni di una sentenza che interessava tanto un suo amico. Gli investigatori scoprono così una sorta di "centro informazioni parallelo" della Cassazione. Giannantonio gestiva un traffico ingente di informazioni più o meno riservate. E non era il solo. Almeno altre due commesse fornivano questo servizio a una ventina di studi che chiamavano dalla Sardegna alla Lombardia, dall'Abruzzo alla Sicilia. Qualcuno domandava cosa c'era dentro il fascicolo trasmesso al Tribunale di Sorveglianza. Qualcun altro si informava sull'iter delle pratiche. Il commesso, pur essendo l'ultima ruota del carro, era in condizione di garantire il 'controllo del territorio'. Secondo i carabinieri, le fughe di notizie dei commessi possono "creare nocumento al buon funzionamento della Giustizia qualora fosse assoggettata ad una delle parti in causa, come è accaduto in altri casi simili a quello in tema, anche eclatanti come il cosiddetto processo Imi-Sir". Questa tranche dell'indagine coinvolge nomi altisonanti del panorama forense italiano. E non deve essere sottovalutata perché, come evidenziano i carabinieri, in alcuni casi consegnare all'avvocato in anteprima l'esito di un ricorso in Cassazione vuol dire offrire al suo cliente la possibilità di fuggire prima che la sentenza sia esecutiva. E il deputato disse: ci penso io Nelle registrazioni anche il tentativo di pilotare l'inchiesta sul calcio e le trattative per rilevare una squadra. Il parlamentare avvocato di An Sergio Cola promette di parlare con il procuratore generale Dal calcio alla politica, passando per le figure di due penalisti. Il pentito Giuliano ha raccontato che il primo a prospettargli la possibilità di risolvere i suoi guai giudiziari con le mazzette fu l'avvocato Alfonso Martucci, che lo indirizzò all'avvocato Francesco Maglione. Dopo un incontro con entrambi nel 1987, racconta il boss, "poiché temevo di essere arrestato dissi all'avvocato Maglione che doveva difendermi con qualsiasi mezzo e gli lasciai un fondo cassa di un miliardo destinato a corrompere i magistrati". Quando gli investigatori napoletani convocano Maglione nel novembre del 2004 come teste, lui all'uscita chiama il figlio e racconta: "Vogliono che confermi le accuse di Giuliano ma non sono vere". Poi però aggiunge di avere nascosto ai pm anche "quel 20-30 per cento che onestamente avrei potuto dire". Maglione in particolare non vuole confermare le accuse del boss Giuliano a un questore ed è preoccupato per le ricadute dell'inchiesta sulla sua nuova attività. Maglione ha lasciato nel 1996 la professione dopo l'omicidio di Anyo Arcella, l'altro difensore storico di Giuliano. Ora fa il dirigente sportivo in molte squadre della Campania. Mentre è sottoposto a indagini, progetta affari insieme a Gianni De Vita, l'ex amministratore dell'Ancona Calcio, arrestato per lo scandalo fideiussioni. De Vita è indagato a Roma e Ancona, ma Maglione, che lo difende, confida nell'appoggio del figlio del procuratore aggiunto di Roma Ettore Torri. Maglione al telefono millanta: "Il figlio del procuratore aggiunto addirittura su Roma in qualche modo a Gianni (De Vita ndr) gli ha. non dico garantito, comunque, promesso una. infatti noi non temiamo niente su Roma! La cosa pericolosa è Ancona, perché 'sta pazza di Ancona (il pm Irene Bilotta ndr) va come una scheggia impazzita e non se ne fotte niente". Il processo comunque non preoccupa più di tanto. Maglione e De Vita progettano di salvare la squadra campana del Giugliano. Lo scopo ultimo in realtà è quello di ottenere vantaggi economici dalla giunta di centro-sinistra. Secondo Maglione, il sindaco avrebbe potuto concedere appalti e terreni a chi avesse salvato la squadra. Maglione vuole creare una società con il consigliere comunale dei verdi Raffaele Vitiello e l'ex presidente del Napoli, Luis Gallo, per costruire un termovalorizzatore o un impianto sportivo. I soldi? Sarebbero venuti dal Credito Sportivo. Secondo Maglione, il presidente del Credito, Andrea Valentini, e il viceministro dell'economia Mario Baldassarri erano riconoscenti a De Vita. L'altro difensore di Giuliano, Alfonso Martucci invece, secondo i carabinieri, è stato eletto alla Camera nel 1992 grazie ai voti dei clan e ha patteggiato una pena a dieci mesi nel 1997. Durante l'indagine si sente spesso con l'onorevole-avvocato Sergio Cola di An. Proprio Cola, secondo i carabinieri, è il tramite usato da Martucci per intervenire "in modo occulto e personale" sul procuratore generale Claudio Rodà. Quando Martucci gli prospetta un problema del suo cliente Mazzarella, Cola si offre subito: "Claudio è un mio amico carissimo, ci parlo io. A me dice la verità".





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