S. MARIA C.V. (CASERTA), GIUSEPPE GAROFALO RACCONTA I 200 ANNI DEL FORO
Data: Sabato, 10 ottobre @ 10:00:15 CEST
Argomento: Cittadini e Giustizia




SANTA MARIA CAPUA VETERE (Caserta) 9 ottobre 2009 (di Giuseppe Garofalo, penalista) - L’istituzione del Tribunale della provincia di Terra di Lavoro con sede in S. Maria C. V. non fu un isolato atto amministrativo per soddisfare posizioni campanilistiche, elettorali o esigenze pratiche di gestione giudiziaria, né è sorto per caso. Fu la conclusione di un decennio di rivoluzioni e controrivoluzioni politiche, sociali, giudiziarie, rinchiuso nell’ambito della Legge del 30 Piovoso (19 febbraio ’99), seguita dal progetto di costituzione, rimasto inattuato, della Repubblica Napoletana; Legge 20 Maggio 1808 di Giuseppe Bonaparte sul riordino dei Tribunali; e più tardi Legge 29 Maggio 1817 sull’organizzazione giudiziaria del Regno delle due Sicilie; Legge organica 17 Febbraio 1861. La celebrazione odierna si limita a quella giudiziaria che non può ignorare del tutto quella politica di cui è figlia. Il decennio rivoluzionario che precedette l’istituzione del Tribunale, ebbe inizio nel gennaio 1799 con la Repubblica Napoletana che si trovò di fronte un mondo giudiziario che era “selva da nessun sentiero segnata”, come la definiva un alto magistrato. Era la somma di 500 anni di legislazione sveva, angioina, aragonese, spagnola, con l’aggiunta di prassi, usi, costumi, interpretazioni, responsi dei dottori. La foresta della legislazione era accompagnata da quella ancora più impenetrabile dell’ordinamento giudiziario. Nel Regno di Napoli, diviso in dodici province, vi erano tre grandi Tribunali, antichi e meno antichi, con sede in Napoli. La Regia Camera della Sommaria, la Gran Corte della Vicaria, il Regio Sacro Consiglio, a cui si era aggiunto il Supremo Magistrato del Commercio. La Regia Camera della Sommaria era il Tribunale del fisco. Aveva una competenza vastissima: tasse, appalti, incassi, spese pubbliche, feudi, ed ogni vertenza in cui il fisco fosse attore o convenuto. Era regolamentata dai Riti, raccolta di leggi e prassi, opera di Andrea d’Isernia. Era divisa in tre sezioni, aveva 10 presidenti, e un numero infinito di attuari e scrivani. Ne facevano parte anche i giudici “idioti”, così chiamati i componenti del Tribunale che non possedevano il dottorato in legge. Sulle questioni di diritto i giudici “idioti” non votavano. Le decisioni della Sommaria erano chiamate “arresti”. La Gran Corte della Vicaria era il giudice ordinario civile e penale del Regno. Si componeva in 4 “ruote” (sezioni) due civili e due penali, ciascuna composta da tre giudici. Quelle penali erano presiedute da un consigliere del Sacro Consiglio. Era regolamentato dai “Riti della Vicaria”, compilati e pubblicati sotto il Regno della Regina Giovanna II, la lussuriosa. La Gran Corte della Vicaria era il giudice di appello dei 12 Tribunali provinciali e giudice di prima istanza di Terra di Lavoro. Il Sacro Consiglio era il Supremo Tribunale Napoletano. Istituito da Alfonso D’Aragona nel 1444, era composto da 24 consiglieri di cui 20 divisi in 4 sezioni e dei rimanenti 4, due presiedevano le due ruote della Vicaria, il terzo ricopriva la carica di governatore di Capua e il quarto quella di consultore del viceré di Sicilia. Era giudice di primo grado della città di Napoli e giudice di appello della Gran Corte della Vicaria. Per legge a questo Tribunale non potevano essere presentate istanze e richieste, ma solo suppliche perché rappresentava il re e quando parlava, parlava il re. Le sue sentenze facevano testo in Europa. Il Supremo Magistrato del Commercio era il più giovane. Era stato istituito solo nel 1739 da Carlo III. Composto da magistrati e commercianti, era stato creato per dare slancio al commercio, soffocato dalle procedure dei Tribunali. Udienze Provinciali: In ciascuna provincia esisteva un Tribunale detto “udienza”, formato dal governatore della provincia e da due giudici, detti uditori. Ne facevano parte l’avvocato fiscale, l’equivalente dell’attuale Pubblico Ministero e l’avvocato dei poveri. Ai grandi Tribunali si affiancava una miriade di Tribunali settoriali. 1) Il Commissario di Campagna. Era il braccio giudiziario del Giudice Generale contro i delinquenti, un organismo presieduto da un membro del governo, creato per combattere reati lesivi della sicurezza e incolumità collettiva. Per approssimazione su ragioni e finalità potrebbe dirsi un lontano antenato della D.D.A. Aveva competenza territoriale limitata alla sola Terra di Lavoro. Operava in forza di giustizia delegata, (delegata dal re tramite il viceré), cioè quasi senza regole, salvo quelle del diritto comune, quale la difesa dell’accusato. Aveva una struttura autosufficiente: un cancelliere, più scrivani, un usciere, soldati, il boia, più sedi distaccate provviste di carceri, un’amministrazione propria soggetta a rendiconto alla Camera della Sommaria. 2) Il Tribunale Misto, composto da magistrati laici ed ecclesiastici, competente a decidere sui conflitti in materia di immunità personale, reale e locale. Era stato istituito nel 1741 in occasione del Trattato di accomodamento (concordato) tra la Santa Sede e la Corte di Napoli. 3) Tribunale della dogana delle pecore di Foggia. Decideva su tutto ciò che riguardava la dogana delle pecore. Tutti quelli che avevano rapporti diretti o indiretti con le pecore, i pascoli, il latte, i formaggi, e finanche i costruttori di fuscelle, erano sottratti civilmente e penalmente alla giurisdizione ordinaria. 4) Tribunale delle arti e mestieri: la seta e la lana avevano i propri Tribunali, e così altre attività. 5) La Corte delle meretrici: Era il tribunale competente a giudicare tutti gli affari civili e i reati connessi alla prostituzione, compreso il lenocinio, ma non l’aborto. Riscuoteva la gabella delle meretrici, la tassa che abilitava all’esercizio della prostituzione. Custodiva i registri delle “in gabellate”, cioè delle prostitute. La sua struttura era: un giudice nominato dal viceré entro una terna proposta dall’appaltatore delle gabelle, uno scrivano, un portiere, più percettori. Era cessata di esistere nel 1640 quando la città di Napoli per liberare le sue sfortunate figlie aveva riscattato la gabella versando alla Corte Spagnola un milione di ducati. La sua giurisprudenza era ancora in parte utilizzata dalla Vicaria. 6) Uditore dell’esercito, era il responsabile della giustizia militare. 7) La Giustizia feudale. Ogni feudo piccolo o grande aveva la sua giurisdizione civile e penale. Solo negli ultimi tempi gli era stata sottratta quella relativa agli omicidi. Gennaio 1799: la Repubblica Napoletana, non perdé tempo a rivedere dalle fondamenta la giustizia. Non potendo abbattere in un giorno un secolare meccanismo giudiziario, dettò misure e regole provvisorie, ma di fondo: 1) Cambio dei nomi dei Tribunali napoletani: a) la Camera della Sommaria viene chiamata Camera dei Conti Nazionali; b) la Gran Corte della Vicaria assume il nome di Gran Corte Nazionale; c) il Sacro Consiglio è chiamato Supremo Consiglio Nazionale. Il cambio dei nomi ebbe solo un valore psicologico e servì ad indicare la rottura col passato. Tutti i magistrati vennero invitati a rimanere al loro posto ed ad applicare le leggi vigenti. 2) Redazione degli atti giudiziari in lingua italiana e non più in latino. 3) Abolizione della tortura. 4) Abolizione dei diritti feudali. 5) Divisione del territorio, ai fini amministrativi e giudiziari, in distretti, cantoni e comuni. 6) Per smaltire i numerosi processi per detenuti che affollavano le carceri, furono create due commissioni: la prima, la Commissione di Polizia, composta da un commissario di governo e 5 giudici, presieduta a turno di un mese da ciascuno dei componenti, giudicava dei delitti che comportavano una pena non superiore a 6 mesi. La seconda era composta da un commissario di governo e 7 giudici. I processi dovevano terminare entro 5 giorni. I provvedimenti definitivi sull’ordinamento giudiziario furono dati con la Costituzione, compilata dal Comitato di Legislazione di cui era anima e responsabile Mario Pagano. Il modello francese era così articolato: Giudice di Pace: uno per ogni capoluogo di cantone, assistito da 2 assessori. Competenza: cause civili non superiori a 300 ducati e cause penali comportanti la pena non superiore ad un mese di carcere o alla multa di 50 ducati. Tribunali civili: 3 in ogni dipartimento, ciascuno composto da 3 giudici. Competenza: cause del valore superiore a 300 ducati. Giudicavano in appello le sentenze dei Giudici di Pace e quelle del Tribunale di Commercio. Sull’appello contro le sentenze di un Tribunale Civile decideva un altro Tribunale dello stesso dipartimento. Tribunale di Commercio: composto da 5 giudici. Giudicava inappellabilmente le cause del commercio di terra e di mare non superiore a cento ducati. Per le cause di valore superiore si poteva appellare ad un Tribunale del dipartimento. Tribunale criminale: uno per ogni dipartimento composto da 3 giudici, ciascuno dei quali, a rotazione di 3 mesi, faceva da presidente. Per le cause criminali erano previste due giurie, una di accusa e l’altra di giudizio, i cui componenti erano elettivi. Corte di Cassazione: era composta da 7 membri. Annullava “i decreti fatti contro le forme legali o contro un caso espresso di legge”. Tribunale di Censura: uno in ogni cantone, composta da 5 membri eletti dall’assemblea, che Mario Pagano definiva “i sacerdoti della Patria”. Competenza: “vigilare sui costumi del popolo e dei pubblici funzionari (compresi i magistrati)”, privando dei diritti civili chi si rendesse colpevole di vizi e dissolutezze. La funzione dei Tribunali di Censura era precisata e regolamentata: ”la loro facoltà non deve estendersi ad imporre sospensione dei diritti civili oltre il terzo anno, né potrà sui pubblici funzionari esercitare la censura se non dopo spirato il tempo delle loro funzioni, ed allora potranno essere puniti ancora per quei vizi, che nel corso delle loro cariche avranno forse manifestati. In tal modo sarà rispettata l’autorità dei pubblici funzionari, ed imbrigliata la baldanza dei viziosi”. Il controllo dell’operato dei magistrati era stato sempre a cuore a Mario Pagano che in passato aveva proposto l’istituzione di una magistratura col compito di “sovraintendere ai costumi, alle leggi e all’amministrazione della Giustizia, vigilando perché i primi non si corrompano, perché non vengano proposte leggi cattive o inutili perché quelle emanate non siano neglette e perché i processi si tengano senza inganni o raggiri”. Il Tribunale di Censura manteneva in vita lo spirito di un istituto secolare: il sindacato. Obbligava il giudice a dare conto, ogni due anni, del proprio operato. Introdotto da Federico II con la 101° costituzione di Melfi, era stato sostanzialmente confermato da Carlo D’Angiò. Le leggi sveve e angioine prevedevano che il sindacato del giudice, a termine del suo mandato, dovesse farlo un altro giudice, il successore. Gli aragonesi rivoluzionarono il sindacato. Per evitare che continuasse ad essere un affare tra soci, come scriveva G. M. Galanti, doveva essere esercitato da sindacatori non magistrati, nominati dai rappresentanti delle amministrazioni dove il giudice da sindacare aveva esercitato il suo ufficio. I giudici della Vicaria di Napoli erano sindacati dalla amministrazione della città attraverso suoi delegati. Che succederebbe oggi se quelle regole fossero ancora in vigore? Non c’è bisogno di fantasia per raffigurarselo. La procedura di sindacato era meticolosa e i sindacatori avevano la qualifica di giudici ordinari, abilitati a cercare le prove, interrogare i testimoni e arrestare i falsi. Il Tribunale di censura si richiamava al modello aragonese. Il vituperato Codice del Regno delle due Sicilie recepì il principio del sindacato (art. 164 legge 29 maggio 1817), sia pure limitatamente ai giudici del circondario e riconducendolo non al modello aragonese. Nell’ultimo mese del triennio di servizio del giudice del circondario, i cittadini venivano invitati con pubblico manifesto a dare notizia delle trasgressioni del giudice per riferirle al ministro. Al controllo previsto dal Tribunale di Censura, la costituzione repubblicana aggiungeva una norma generale di sbarramento e di principio (Titolo VIII – artt. 101 e 102), che oggi farebbe felici i politici. Stabiliva: “I giudici non possono mescolarsi nell’esercizio del potere legislativo, né fare alcun regolamento. Non possono arrestare o sospendere l’esecuzione di alcuna legge, né citare dinanzi a loro gli amministratori per ragioni delle loro funzioni”. Divieto ribadito dall’art. 199 legge 29 Maggio 1817 dalla restaurata monarchia borbonica. L’ordinamento giudiziario repubblicano non entrò in esecuzione perché la controrivoluzione guidata dal Cardinale Ruffo, alla testa dell’armata della Santa Fede, abbatté la Repubblica. I capi e promotori, grazie anche, e soprattutto, alla inqualificabile slealtà dell’Ammiraglio Nelson, finirono impiccati o decapitati in Piazza Mercato, compreso Mario Pagano. La costituzione repubblicana compilata con l’impiego di un alto livello di cultura non andò mai in esecuzione. La restaurazione ripristinò l’antica legislazione e ordinamento giudiziario, aboliti dalla Repubblica. Un nuovo Tribunale di sangue, la Giunta dei rei di Stato, arricchì il boia. Sessanta impiccati e venti decapitati nei soli primi quattro mesi di attività. Una manciata di anni, solo 7, e di nuovo un radicale sconvolgimento. L’armata francese, nel febbraio 1806, occupò il regno, a cui diede un nuovo re, Giuseppe Bonaparte. In attesa di emanare nuove leggi, il governo tenne in vigore la vecchia legislazione a cui con Legge 8 agosto 1806 affiancò 4 Tribunali straordinari che coprivano tutto il territorio del regno, competenti a “conoscere esclusivamente di tutti i delitti contro la pubblica sicurezza commessi a mano armata in campagna o sulle pubbliche vie; degli attruppamenti sediziosi ed armati; delle unioni clandestine; delle sommosse popolari; della reclutazione dello spionaggio e di ogni altra colpevole corrispondenza a favore dei nemici; e finalmente degli autori dei libelli o voce manifestamente diretta a turbare la pubblica quiete; e dei vagabondi”. Ciascun Tribunale era composto da 8 membri, 5 civili e 3 militari. A parità di voti prevaleva quello favorevole all’imputato. Malgrado seguissero le regole di rito accusatorio con l’acquisizione delle prove al dibattimento, i Tribunali straordinari scrissero indimenticabili pagine di malagiustizia. Quello di Terra di Lavoro si rese responsabile del più straziante caso della storia giudiziaria del regno. Ad un vecchio farmacista settantaseienne, noto filoborbonico, in corrispondenza con gli ambienti della Corte, fuggita a Palermo, indagato per il grave attentato al Ministro di Polizia Cristoforo Saliceti, il giudice che conduceva le indagini, membro del Tribunale, promise la grazia se avesse fatto i nomi di coloro che avevano messo la bomba sotto il palazzo dove abitava il Ministro. Il vecchio farmacista, Onofrio Viscardi, accettò il patto e dichiarò che autori dell’attentato erano stati i suoi figli con altri venuti da Palermo. Il Tribunale condannò, tra gli altri, i due figli di Viscardi. Uno a 22 anni di ferri e l’altro a morte per impiccagione. Sentenza eseguita il giorno dopo in Piazza Mercato. I napoletani tremarono per l’orrore. Non per l’impiccagione, da anni spettacolo quotidiano ad opera di rivoluzionari e controrivoluzionari, ma per l’accusa del padre contro i figli, una rivoluzione anche quella, ma contro natura. Nella Gran Corte della Vicaria, che ancora funzionava, nella porta accanto all’aula dove sedeva il Tribunale straordinario, una sentenza come quella sarebbe stata impensabile. Per sua giurisprudenza, i giudici, seguendo le leggi romane, non avrebbero utilizzato la testimonianza del padre contro i figli né quella dei figli contro il padre. “ Perciocché o le voci della natura sono ascoltate da sé stretti congiunti, e il favore corrompe la testimonianza; o tacciano nel di loro seno, e conviene allora dire una ferina scellaragine abbia il loro cuore depravato”. Lo aveva scritto Mario Pagano, l’impiccato di qualche anno prima. I napoletani tremarono ancora di più quando si accertò che quei due fratelli, uno impiccato e l’altro ai lavori forzati, erano innocenti. Il giudice commissario che aveva stretto il patto con il vecchio padre accusatore, non potendo negare la tragedia si limitò a dire che il processo era stato regolare. Il giudice era Pietro Colletta, l’autore della Storia del Reame di Napoli. Né questo fu l’unico episodio di malagiustizia del Tribunale straordinario. Michele Pezza, più noto come Fra Diavolo, temuto guerrigliero, protagonista di colpi di mano e imboscate contro le truppe Francesi, inquadrato col grado di colonnello nell’esercito borbonico, in violazione di tutti gli usi e le leggi di guerra, invocate dallo stesso colonnello francese, padre di Victor Hugo, che lo aveva catturato, fu condannato a morte come brigante e impiccato in Piazza Mercato. La vicenda di Giambattista Rodio superò i limiti della ingiustizia, per diventare assassinio. Avvocato, era stato uno dei capi dell’armata della Santa Fede del Cardinale Ruffo nel ’99. Per i suoi servizi era stato nominato brigadiere e fatto marchese. Accusato di aver sobillato la popolazione a rivoltarsi contro i Francesi, era stato deferito alla commissione militare che il 25 aprile 1806 lo aveva assolto. Per capovolgere la sentenza il giorno dopo fu convocata un’altra commissione, che seduta stante, lo condannò a morte e lo fece fucilare alla schiena “così quel misero in dieci ore fu giudicato due volte, assolto e condannato, libero e spento; ed aveva moglie figliuoli, servizi e fama. La inumanità spiacque a tutti, fu grande ed universale il terrore”. Lo scrisse Pietro Colletta che era componente di una delle Commissioni. Dopo due anni e più di convivenza con la vecchia legislazione, il 20 maggio 1808 S. Maestà Giuseppe Bonaparte firmò tre decreti: 1) abolizione dei monasteri di clausura; 2) abolizione dei Banchi e creazione di un unico Banco di Corte; 3) riordino dei Tribunali. Con quest’ultimo fissò in ciascuna provincia un Tribunale di prima istanza. Quello della più grande e popolata provincia del Regno, Terra di Lavoro, fu fissato in S. Maria di Capua. Il giorno dopo, 21 maggio 1808, il re partì da Napoli per non più tornarvi. Se ne andò alla chetichella, diversamente da come era venuto. La regina rimase ancora un mese e se ne andò con grande pompa, anche lei diversamente da come era venuta. Lo spirito mordace dei napoletani si espresse in un manifesto Lo Rre E’ benuto da regnante E’ partuto da brigante La Regina E’ benuta da mappina E’ partuta da Regina. Il decreto, oltre ad un Tribunale di prima istanza in ogni provincia, e all’ufficio della Procura Generale, istituì quattro Tribunali di Appello: Napoli, Lanciano, Altamura e Catanzaro. Toccò a Gioacchino Murat, successore di Giuseppe Bonaparte, messo sul trono di Spagna, eseguirlo nel termine previsto, 6 mesi. Primo problema: i componenti dei vari Tribunali. La maggior parte dei nominati alla Corte di Cassazione erano giudici provenienti dai vecchi tribunali. Il reclutamento dei componenti fu risolto faticosamente e senza applausi. Per la Cassazione furono nominati in maggioranza vecchi magistrati che avevano vissuto rivoluzioni e controrivoluzioni con relative vecchie e nuove legislazioni, e prestato giuramento a queste e a quelle. Per i Tribunali di Appello insieme a vecchi magistrati furono utilizzati avvocati patrioti, perseguitati dai borbonici. Per i Tribunali di prima istanza, i nominati dal governo, oltre a non raccogliere il plauso della pubblica opinione, furono, ad eccezione di qualcuno, definiti dal più autorevole diarista dell’epoca “la feccia del Tribunale e della gente”. Il 30 dicembre 1808 furono dichiarate estinte tutte le giurisdizioni antiche. Il diarista annotò: “dopo il corso di circa sei secoli abolito il Tribunale della Gran Corte della Vicaria, e dopo 4 l’augusto Sacro Consiglio e per quanto a me sembra coi vecchi Tribunali è sepolto ancora decoro della magistratura e dell’avvocazia napoletana, tanto rispettabile presso le nazioni straniere”. Cinque giudici di Cassazione ebbero il compito di fare da liquidatori delle antiche giurisdizioni e dei processi che vi pendevano. Con una cerimonia solenne il 7 gennaio 1809 si insediò in Castel Capuano, sul cui portone c’era scritto “Restaurazione della giustizia”, la Corte di Cassazione, presenti i presidenti ed i procuratori dei Tribunali di Appello e di quello Criminale, che a loro volta, prestato il giuramento, furono messi nei rispettivi uffici. Il cerimoniale contenuto in un particolareggiato decreto, non prevedeva la presenza, ad eccezione di quelli di Napoli, del presidente e del procuratore dei Tribunali di prima istanza delle province. Il giorno dopo, 8 gennaio 1809, tutti quelli che avevano giurato in Castel Capuano, vestiti dei sontuosi abiti, minuziosamente descritti in un apposito decreto, in lungo corteo di carrozze, da Castel Capuano si recarono a palazzo per rendere omaggio al re. Il diarista riferisce che il popolo “si burlava di questa mascherata”. Al passaggio del corteo c’era chi diceva che era la Congrega dei Pellegrini (che aveva la veste rossa), che andava a prendere un cadavere; chi sosteneva che erano i giustiziandi diretti al patibolo; chi riteneva che erano le maschere. “Insomma è sembrata una buffonata”. Quella che al popolo era apparsa una buffonata era stata oggetto di due decreti che regolavano gli abiti dei magistrati e i dettagli dei gesti cui ciascun partecipante era tenuto. Un momento di vanità, mondanità e frivolezza. Dietro il solenne cerimoniale c’era stato un violento scontro di principio tra i poteri. Un gruppo di magistrati, chiesta udienza al Ministro di Giustizia, gli avevano detto che essi, per motivi di coscienza, non se la sentivano di applicare la legge istitutiva del divorzio. Proponevano di cambiare la formula del giuramento da prestare. Invece di giurare di osservare le leggi avrebbero potuto giurare fedeltà e obbedienza al re, come si faceva in passato. Questo gli dava modo di non applicare la legge e contemporaneamente non venir meno al giuramento. Ascoltata la proposta, il re reagì nel suo stile di generale di cavalleria: A chi non piace la legge o non si sente di applicarla, può andarsene anche a casa. Se ne andò uno solo, Raffaele Tramaglia, che il re premiò per la sua coerenza assegnandogli una pensione equivalente a metà dello stipendio. Tutti gli altri rimasero e prestarono giuramento, ma decisero di resistere e svuotare la legge attraverso l’interpretazione. L’occasione non tardò a presentarsi: due istanze di divorzio, una a S. Maria e l’altra a Napoli. A S. Maria, come negli altri Tribunali di prima istanza, regnava confusione perché nessuno sapeva come fare i processi anche in mancanza di un codice di rito. Si decise di aspettare ed eventualmente uniformarsi a Napoli. L’istanza presentata a Napoli era di una semplicità disarmante provvista di prove evidenti. Un tal Moscati chiedeva il divorzio perché la moglie lo aveva lasciato da anni e viveva notoriamente more uxorio con un altro uomo. Giudice commissario della causa era Domenico Criteri uno di quegli obiettori di coscienza che avevano deciso di resistere. E resisté imperterrito. Respinse l’istanza con una motivazione tra l’insipienza e la provocazione. Sostenne che la legge non era applicabile al suo caso perché quando la moglie lo aveva abbandonato l’istituto del divorzio non esisteva. L’ira del Ministro della Giustizia e del re costrinsero il giudice alle dimissioni. A Castelcapuano si accorsero che l’era della Repubblica dei Togati era finita e che al Governo c’era chi faceva rispettare i ruoli. L’ordinamento giudiziario, introdotto da Giuseppe Bonaparte, contrariamente a quanto vigeva in Francia e a cui si era ispirato Mario Pagano nel redigere la Costituzione della Repubblica Napoletana, non instituì per i processi penali nessun tipo di giuria. L’occupazione francese durò un decennio. Con la caduta di Napoleone cadde anche il trono di Murat e tornarono i Borboni che, il 20 maggio 1815, riassunsero la sovranità nei territori del Regno al di qua del Faro. Contrariamente a quanto avvenuto in precedenza, il governo di S Maestà Ferdinando IV non rimise in vita l’antica legislazione che i Francesi avevano abrogata, ma elaborò un nuovo ordinamento giudiziario, il Codice del Regno delle due Sicilie, che a quello francese si ispirava. Per effetto della organizzazione giudiziaria del regno approvata con Legge 29 maggio 1817, presso ciascun tribunale esistente fu istituita anche una Gran Corte Criminale composta da un presidente e 6 giudici. Solo per il tribunale di Napoli e di Santa Maria la Gran Corte era costituita in “due camere”cioè due sezioni. Per determinati reati la Gran Corte Criminale si trasformava in Gran Corte Speciale con 8 giudici votanti. Il Codice del Regno delle due Sicilie, cessò di avere vigore il 14 febbraio 1861, che è la data dell’ordine del giorno indirizzato all’Armata di Gaeta da Francesco II al momento di lasciare il regno. Con l’avvento dell’Unità l’organizzazione giudiziaria ebbe una nuova articolazione: 1) giudici conciliatori; 2) giudici di mandamento; 3) tribunali di circondario; 4) tribunali di commercio; 5) corti di appello; 6) corti di assise; 7) corti di cassazione; Con la Legge organica del 17 febbraio 1861 fu introdotta nell’ordinamento giudiziario per i giudizi di corte d’assise, la giuria popolare che la costituzione repubblicana elaborata da Mario Pagano prevedeva e che i francesi non introdussero malgrado vigesse in Francia. La legge organica richiamò in vita un istituto che nell’antica legislazione napoletana aveva scritto pagine di storia giudiziaria: l’avvocato dei poveri. Per questo organismo, data l’attualità della materia, va spesa qualche riga in più. La legislazione del regno di Napoli, sveva, angioina, spagnola, non ha mai ignorato o trascurato il problema della difesa di coloro che per mancanza di mezzi finanziari erano impossibilitati a sostenere e difendere i loro diritti e ragioni. La 33^ costituzione di Federico di Svevia, secondo la compilazione di Pier delle Vigne, pubblicata nel 1231 nell’assemblea di Melfi, stabiliva che i minori, le vedove, gli orfani e i poveri, andavano difesi, anche se la lite era contro il fisco, da avvocati esercenti la libera professione forense, pagati dall’Erario, di volta in volta per le loro prestazioni, esenti da qualsiasi spesa di Giustizia, comprese le indennità a testimoni. A distanza di 700 e più anni l’attuale legge sul gratuito patrocinio non è riuscita a fare di meglio. Potrebbe definirsi una copia monca rispetto a quella di Melfi. Malriuscita perché la Costituzione di Federico non si fermava alla difesa giudiziaria in senso stretto. Andava oltre. Prevedeva la somministrazione di alimenti ai litiganti poveri perché potessero attendere più tranquillamente alle loro cause. Non erano previsti limiti di spesa. I Riti della Vicaria, in particolare il 23°, pubblicati dalla regina Giovanna II, circa due secoli dopo, non alterarono il principio, ma restrinsero la borsa. Gli avvocati che assumevano la difesa dei poveri erano, sì pagati dall’erario, ma nei limiti della ripartizione dei proventi, cioè delle pene pecuniarie pagate dai condannati, tra i Giudici dei tribunali. All’epoca l’amministrazione della giustizia cercava di autofinanziarsi. Furono poi gli Aragonesi a risolvere il problema della difesa dei non abbienti, in maniera rivoluzionaria, che i moderni legislatori non immaginano nemmeno. Sua maestà Alfonso D’Aragona con la XIV grazia del 1473, istituì presso la Gran Corte della Vicaria e ciascun tribunale provinciale del Regno, l’ufficio dell’avvocato dei poveri. L’avvocato dei poveri non era più un privato pagato dallo Stato, ma un funzionario dello Stato il cui ufficio era parte organica dei Tribunali. Veniva nominato allo stesso modo con cui venivano nominati i Giudici ed aveva uno stipendio annuo pressoché pari a quello dell’avvocato fiscale (p. m.) del quale assunse il ruolo di contrappeso. Godeva di vari privilegi: aveva la precedenza nelle udienze; difendeva a capo coperto davanti al Sacro Consiglio. Prima che le indagini venissero chiuse, gli atti del processo dovevano essere consegnati all’avvocato dei poveri per eventuali contestazioni e richieste. Delle tre ore di servizio pomeridiano, i Giudici erano obbligati a dedicargliene una. I due avvocati dei poveri presso la Gran Corte della Vicaria oltre ai non abbienti di Napoli e della Provincia di Terra di Lavoro, assumevano la difesa in appello di tutti gli altri condannati dai Tribunali Provinciali. Un compito particolarmente gravoso che comportava una corrispondenza, imposta per legge, con i colleghi che avevano difeso i condannati davanti ai Tribunali Provinciali di prima istanza. In più occasioni gli avvocati dei poveri della Gran Corte della Vicaria si avvalsero dei processi loro affidati per affrontare questioni di principio valide non solo per i poveri. La più significativa fu quella sulla rilevanza della ignoranza della legge penale in una società analfabeta soffocata da legislazione sterminata, in parte superata dal tempo, ma sempre tutta in vigore. Fu sollevata dall’avvocato dei poveri davanti al Sacro Consiglio per strappare alla forca un condannato della Gran Corte della Vicaria per il furto di un mantello in particolari circostanze di tempo e di luogo. La Repubblica Napoletana era consapevole dell’importanza della difesa dei non abbienti e non ignorava i precedenti. Non si sa perché abbandonò l’ufficio dell’avvocato dei poveri, che era una realtà, per incamminarsi sulla via dell’assistenza affidata a privati. Il 25 Febbraio 1799 il Comitato di Polizia generale del Governo provvisorio, premesso che era intendimento della Repubblica non processare le opere pie, invitò la congregazione di S. Ivone a “seguitare la detta opera in tutti i suoi rami, secondo il metodo antico, con quello zelo e fervore, che si conviene ad un vero cittadino. Salute e Fratellanza”. Per comprendere il significato di questo invito è necessario qualche chiarimento. La Congrega di S. Ivone era un’opera pia, i cui componenti erano i più noti avvocati e i più alti magistrati. Il loro compito era quello di assistere i poveri nelle cause civili, fossero attori o convenuti. Il povero che non aveva la possibilità di affrontare un giudizio civile contro un ricco o un potente, si rivolgeva alla Congrega che, esaminata e dibattuta la questione, se la riteneva giusta e difendibile, la curava in proprio, affidandola a un avvocato confratello. Essere confratello della Congrega di S. Ivone era un grande onore e conferiva prestigio. I confratelli avvocati nelle cause sostenute per conto della Congregazione avevano la precedenza su tutti. Per le cause penali la Sala Patriottica, un’ associazione politica, istituì un ufficio, una specie di patronato, affidato a tre avvocati, per la difesa dei poveri e si affrettò a chiarire che quello era un “concerto privato “ della Sala per “beneficiare l’umanità afflitta dal passato governo”. La Legge organica del 17 febbraio 1861 che riportò nell’ordinamento giudiziario del regno unitario l’avvocato dei poveri, era stata preceduta dalla Legge preunitaria 13 febbraio 1859 di Urbano Rattazzi, ministro piemontese con Cavour. La legge Rattazzi (art. 3), valida per il regno sabaudo, dichiarava gli avvocati dei poveri e i loro sostituti “funzionari dell’ordine giudiziario” alla pari “dei giudici di ogni grado, gli uffiziali del pubblico ministero, e i segretari”. Più dettagliata su questo punto la Legge organica del 17 febbraio 1861 (art. 169) estesa dal 1862 a tutto il regno: ”l’avvocato dei poveri ed i suoi sostituti hanno gli onori della magistratura e siedono nel Tribunale o Corte cui sono addetti nelle adunanze generali prevedute dall’art. 129 (inaugurazione anno giudiziario) della presente legge, ed intervengono coi tribunali e le corti in tutte le solenni cerimonie a cui questi magistrati sono chiamati”. Solo 3 anni durò l’avvocatura dei poveri presso il tribunale di Santa Maria. Fu soppressa con Legge 6 dicembre 1865 per motivi finanziari. Al suo posto fu introdotto il gratuito patrocinio e l’avvocato d’ufficio. A quella legge si uniformò il Decreto 30 Dicembre 1923, rimasto in vigore fino al 1990 e seguito dal Testo Unico 30 maggio 2002 n. 115, con tutte le anomalie. La classe forense che si riunisce oggi in convegno nazionale, nel rispetto delle sue tradizioni, può intervenire per sanarle. Più volte nella sua storia sul Tribunale di Santa Maria, il più grande delle provincie meridionali, dopo Napoli, è caduta l’attenzione internazionale per processi, dai risvolti politici o di grande interesse collettivo, che vi si celebravano. Di questi mi limito a ricordarne solo alcuni. PROCESSO LA GALA Una feroce banda, capeggiata da Giona la Gala, seminava terrore e morte tra Maddaloni e Arienzo. Un medico, ritenuto un delatore, convocato in montagna, era stato ucciso e fatto a pezzi che qualcuno aveva anche mangiato. Per dare una parvenza di legittimazione alle brutali imprese innalzavano bandiera borbonica. L’assalto alle carceri di Caserta e la liberazione dei prigionieri accreditava la loro figura di insorgenti contro il governo piemontese. E accreditava anche la voce che il loro referente fosse la giovane regina Sofia, esule a Roma e non rassegnata alla perdita del trono di Napoli. La banda, braccata dall’esercito e destinata ad una esecuzione sommaria sul porto, trovò modo di imbarcarsi su una nave francese per riparare in Francia. Ciascun componente della banda era provvisto di passaporto dello Stato Pontificio. Francia e Stato Pontificio tifavano per il re di Napoli. Nei suoi confronti il Papa aveva un debito. Non più di un decennio prima Pio IX, costretto a fuggire da Roma, aveva trovato rifugio a Gaeta, accoltovi e protetto dal Re di Napoli, padre dello spodestato Francesco. La Francia per conto suo aveva fatto anche di più. La flotta francese si era messa tra Gaeta e la flotta piemontese per impedire assalti. E con un battello francese, Francesco II, l’ultimo Re di Napoli, aveva lasciato il territorio del regno. La nave francese con a bordo i componenti della banda La Gala, diretta a Marsiglia, fece scalo a Genova. Il ministro di polizia, il napoletano Silvio Spaventa, li fece arrestare e tradurre in carcere. Violenta protesta di Napoleone III che denunziava la violazione del territorio francese. Tale era da considerarsi la nave. Pretese che gli fossero consegnati i prigionieri per poi decidere se restituirli o trattenerli in Francia come rifugiati. Negare la consegna dei prigionieri significava creare un incidente diplomatico e guastare i rapporti con la Francia, del cui aiuto l’Italia, appena unita, aveva bisogno. Napoleone III mantenne la parola e restituì i prigionieri che furono giudicati dalla Corte d’Assise di Santa Maria C.V. Non disponendo il tribunale di un’aula che potesse accogliere i numerosi imputati e garantire la sicurezza, il processo fu celebrato nella Caserma posta di fronte al carcere, attuale Caserma Pica, dove si appresta ad essere trasferita parte del tribunale. Attesi i risvolti politici del processo, furono presenti numerosi inviati stranieri e un osservatore speciale di Napoleone III per garantire che fossero rispettate le condizioni con cui erano stati restituiti i prigionieri che assegnavano al processo la cognizione dei soli reati commessi, senza riferimenti né espliciti né impliciti, a situazioni politiche. PROCESSO ALLA BANDA DEL MATESE Carlo Cafiero, di ricca famiglia pugliese, socialista e internazionalista e Enrico Malatesta di S. Maria C. V. discepolo di Bakunin, anarchico alla testa di un pugno di uomini tentarono di provocare una sollevazione delle popolazioni meridionali contro il governo. Nella primavera del 1877 si concentrarono, in tutto una ventina di uomini, sul massiccio del Matese. Intercettati dalla polizia nei pressi di S. Lupo in provincia di Benevento aprirono il fuoco e uccisero un carabiniere e né ferirono un altro. Attraverso sentieri di montagna ripararono in provincia di Caserta dove, nei comuni di Gallo e Letino, dichiarato decaduto il Re, proclamarono la repubblica sociale. Accerchiati e arrestati tutti, furono rinchiusi nel carcere di S. Maria C. V. Contro gli arrestati furono aperti due processi, uno presso la procura del Re di Benevento per l’omicidio e il ferimento dei due carabinieri e l’altro presso la procura di S. Maria C. V. per attentato alla sicurezza interna dello Stato. L’istruttoria a S. Maria C. V. fu complessa e di largo respiro, anche se su di essa pendeva la minaccia del ministro dell’interno Giovanni Nicotera, di investire del processo un Tribunale Militare. A conclusione, il Procuratore Generale chiese l’unificazione dei due processi e il rinvio a giudizio degli imputati davanti la Corte di Assise di S. Maria C. V. Venuto a morte il re, Vittorio Emanuele II, il nuovo re, Umberto I, proclamò l’amnistia per i reati politici. Rimasto il solo carico dell’uccisione e del ferimento dei due carabinieri, ritenuto reato comune, gli imputati furono rinviati a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Benevento, competente per territorio. I giudici di quella Corte assolsero tutti gli imputati. Il tribunale e il carcere di S. Maria C. V. nella pendenza del giudizio finirono sui giornali di tutta Europa, non solo per l’aspetto politico del processo e la pericolosità degli imputati, ma anche per un episodio singolare, quasi di colore, che suscitò ilarità e incredulità, anche esse a livello internazionale. Il 21 giugno 1877 il console d’Italia a Ginevra informò il ministro dell’interno che gli internazionalisti della “Banda del Matese” capeggiata da Carlo Cafiero ed Enrico Malatesta, prigionieri nelle carceri di S. Maria C. V. in attesa di giudizio innanzi alla Corte d’Assise di Benevento, erano riusciti a far pervenire una loro lettera al Bureau federale di Neuchàtel. Alla richiesta di spiegazioni del ministro, il direttore delle carceri e il procuratore del Re di S. Maria C. V. esclusero categoricamente che il fatto potesse essersi verificato sia perché gli agenti di custodia addetti alla sorveglianza erano persone di provata fede, sia perché i prigionieri erano guardati a vista in ogni movimento del giorno e della notte. Ad ogni buon conto per scrupolo professionale il direttore diede ordine di privare i detenuti di qualsiasi strumento di scrittura e dispose che i prigionieri potevano scrivere due volte alla settimana alla presenza delle guardie e in una sala apposita su carta e con penna fornita al momento dalla direzione del carcere. Dopo solo 20 giorni il ministro allarmato informò il direttore delle carceri che alla riunione del comitato della sezione italiana di Ginevra, Andrea Costa aveva tirato fuori un’altra lettera di Carlo Cafiero proveniente dalla prigione di S. Maria C. V. Il direttore rispose per la seconda volta che il fatto era impossibile e che il tutto era una millanteria degli internazionalisti diretti ad accreditare una forza inesistente. Esasperò ancora lo scrupolo professionale e fece sorvegliare i sorveglianti dentro e fuori la prigione. Per quasi un mese Carmine Esposito, un agente di custodia fece impazzire il commissario di S. Maria C. V. ed altri esperti indagatori fatti venire apposta. Smontato dal servizio, ogni giorno se ne andava alla stazione e se ne stava in contemplazione a vedere passare i treni. La Svizzera e i treni facevano giurare che fosse lui la talpa: tutti i sospetti risultarono infondati. Carmine Esposito era nient’altro che un romantico che si contentava di affidare ai treni i suoi sogni di terre lontane. I prigionieri furono trasferiti dal 10° comprensorio, il nucleo di agenti fu cambiato e il nutrito drappello di soldati di guardia all’esterno rinforzato. Le palomme non hanno mai conosciuto barriere. A distanza di poco meno di due mesi il giornale “L’Anarchia” di Napoli scrisse che gli internazionalisti prigionieri, nel carcere di S. Maria C. V. si erano costituiti in sezioni col nome di “Banda del Matese” e che avevano inviato ad Andrea Costa il mandato, sottoscritto da tutti, a rappresentarli al congresso di Verniers. Come se la notizia non bastasse, il “Buletin de l’Association des travailleurs”, che si stampava a Sonvillieurs, cantone di Berna, pubblicò il testo del mandato con le firme dei detenuti. Il solito direttore diede la solita versione: le firme erano apocrife perché non era assolutamente possibile che i detenuti, rinchiusi in camerate diverse, avessero potuto firmare lo stesso foglio. Il Ministro lo mise a tacere perché si accertò che le firme erano autentiche. Artefici dell’operazione erano stati due camorristi, il detenuto Vincenzo Esposito e il prestinaio esterno Camillo Palmiero, figlio di quel Ferdinando Palmiero, “pedecchiuso” uno dei capi camorra di Caserta, arrestati nella repressione del ‘62. A distanza di tempo fu sequestrata la micro attrezzatura per scrivere che solo i camorristi possedevano ed erano in grado di fornire. Andrea Costa rivelò ai compagni esuli in Svizzera che per ogni documento che usciva dal carcere, Cafiero pagava 40 lire. PROCESSO CARNEVALE Era stato rinviato dalla Corte di Cassazione da Palermo alla Corte di Assise di S.Maria C.V. Salvatore Carnevale, socialista, sindacalista, guidava il movimento popolare per l’occupazione delle terre. Fu ucciso una mattina mentre percorreva un “tratturo” per recarsi al lavoro. Furono arrestati quali autori dell’omicidio quattro “campieri”, indicati come mafiosi di un feudo della principessa Notarbartolo. L’istruttoria presso il tribunale di Palermo fu agitata da manovre sotterranee per scagionare gli imputati. Silenzio dei testimoni, falsi alibi, ritrattazioni di dichiarazioni già rese furono il terreno per invocare la legittima suspicione. Il processo davanti la Corte di Assise di Santa Maria fu lungo e a volte drammatico. Gli imputati furono condannati all’ergastolo e fu segnalato che quella era la prima sentenza che interrompeva l’abituale serie di assoluzioni per insufficienza di prove. Vari furono i motivi che richiamarono a Santa Maria la stampa internazionale: 1) lo sfondo politico e mafioso del processo; 2) il libro di Carlo Levi” Le parole sono pietre” riferito al linguaggio asciutto e di denunzia di Francesca Serio la madre dell’assassinato; 3) la presenza al processo dello stesso Levi, interessato anche a verificare se gli imputati corrispondevano ai connotati morali che la Serio gli aveva attribuito e a lui riferiti in lunghi colloqui. La serie di assoluzioni si interruppe solo per un momento per riprendere, con l’assoluzione degli imputati in appello, il suo corso. Parlare del passato remoto del tribunale non mi è stato difficile. I documenti costituiscono una guida sicura. Parlare del suo passato prossimo è stato più difficoltoso perché il tempo non ha ancora ingiallito le carte. Parlare del tribunale oggi è estremamente difficoltoso, a meno che non ci si voglia fermare alle esteriorità fatte di arresti in massa, maxiprocessi e condanne all’ergastolo. Il lettore sprovveduto potrebbe confonderle con quelle che seguirono la famigerata Legge Pica (1863-1865). Il tempo rimetterà al loro posto, nella speranza che non ne manchi alcuna, le tessere del mosaico della giustizia.





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