LIBRI IN REDAZIONE, RECENSIONE: (LIVIDIOTTI), MAGISTRATI, L'ULTRA CASTA (2)
Data: Venerdì, 04 settembre @ 16:01:05 CEST
Argomento: Cultura


Libri in redazione - L'Ultra Casta, di Stefano Liviadotti - seconda parte - Recensione a cura di Ferdinando Terlizzi



Il premier? “Un fesso”. E i poliziotti? “Imbecilli”

Straparlano. Sui giornali. In televisione. Nelle manifestazioni pubbliche. Rovesciando insulti su chiunque. Sui colleghi e sulla giustizia. Sul governo come sulle forze dell’ordine. Ma il Csm riesce sempre a trovare un buon motivo per assolverli. Salvo quando il bersaglio delle contumelie diventa proprio Palazzo dei Marescialli. Una lettura che i magistrati italiani non si perdono proprio mai è quella dei “Quaderni del Consiglio superiore della magistratura” sulla disciplina. In quelle pagine hanno trovato, nero su bianco, l’elenco dei loro doveri: correttezza, diligenza, imparzialità, operosità. Il riserbo, quello veniva per ultimo. E dunque, si sono detti, era certamente il meno importante. Così, hanno deciso in massa di ignorarlo. Per rendersi conto della coerenza con cui hanno applicato la scelta ai loro comportamenti di tutti i giorni occorre armarsi di una lente d’ingrandimento e andare a curiosare tra le note di uno strabiliante torno di 591 pagine, intitolato La libertà di espressione dei magistrati. Sostiene l’autore, Sandro De Nardi: “Se a fronte di singolari esternazioni poste in essere in occasione dell’espletamento di funzioni giudiziarie si negasse qualunque forma di sindacato e di eventuale responsabilità disciplinare al fine di non compromettere l’indipendenza funzionale degli esponenti dell’ordine giudiziario, questi ultimi diventerebbero una casta di intoccabii: il che non sarebbe concepibile in base alla nostra Costituzione”. Ha scritto nel 1984 Giuseppe Ferrari, costituzionalista, professore emerito di diritto pubblico ed ex membro del Csm e poi della Consulta, in Soliloquio sulla magistratura: “Assolutizzando e dilatando il principio dell’indipendenza dei giudici si perviene all’intoccabilità dei magistrati. Questi, quando amministrano la giustizia, è in nome dell’indipendenza che non possono essere perseguiti, per abnormi che siano i loro provvedimenti e sgangherate le relative motivazioni E...] E, quando non amministrano la giustizia, allora è in nome della libertà di manifestazione del pensiero che si perpetua l’intoccabilità”. È esattamente ciò che succede in Italia, dove i magistrati straparlano. Inondando tutti i giorni di interviste gazzette di ogni risma. Non resistendo all’irrefrenabile impulso di pararsi davanti a qualunque telecamera risulti a tiro. E facendo a gara a chi la spara più grossa. Sicuri di poter contare, sempre e comunque, sulla comprensione della sezione disciplinare. Negli ultimi decenni, una sola delle tante toghe linguacciute ci ha rimesso la poltrona, destituita il 19 marzo del 2004, ma non aveva solo violato il riserbo. Il tipo in questione, “già condannato per corruzione aggravata in atti giudiziari, perseguendo interessi personali di natura patrimoniale attraverso una condotta del tutto contraria ai suoi doveri istituzionali, aveva accettato da un noto imputato (dei reati di associazione camorristica ed estorsione continuata e aggravata) di rivelare i contenuti della camera di consiglio del collegio giudicante di cui faceva parte come giudice a latere e s’era impegnato a suggerire la strategia processuale più utile per pervenire all’assoluzione del suddetto imputato e dei suoi associati”. Diciamo pure che buttano fuori era stato davvero inevitabile. Ma in quasi tutti gli altri casi il Csm, in un modo o nell’altro, ha trovato la strada per assolvere i magistrati. Anche quelli che hanno divulgato particolari delle istruttorie a loro affidate, così contravvenendo alla circolare del consiglio del 22 aprile 1966. Aveva detto l’allora presidente della repubblica Scalfaro davanti all’assemblea plenaria del 9 luglio 1998: “Non ho mai visto arrivare a termine una procedura per violazione di segreto istruttorio”. Abbiamo già visto la storia di quello che l’ha passata in cavalleria perché, semplicemente, secondo i giudici dei giudici, non si rendeva conto di ciò che andava esternando. Ma ce ne sono ben altre. Come quella del magistrato che, commentando una proposta sulla liberalizzazione delle droghe leggere, aveva insultato alcuni parlamentari (tranne poi correggersi in una successiva intervista): “Non commette illecito,” ha deciso la disciplinare, “allorquando le espressioni usate [definite dal Csm stesso ‘inopportune e poco meditate’] appaiono fortemente condizionate dal suo appassionato impegno professionale nello specifico settore”. In un altro caso, il comportamento poco urbano di Vostro Onore è stato addirittura giustificato “dall’esuberanza legata alla giovane età”. Aspettando che un giorno, chissà, il magistrato sbarbatello metta giudizio pure lui, quelli della sezione intanto hanno assolto anche un suo collega che aveva “inserito in un provvedimento giurisdizionale riferimenti capaci di offendere la reputazione di terzi estranei”. Nella motivazione, gli uomini del Csm hanno superato se stessi, e pure Niccolò Machiavelli: “[Gli insulti] erano necessari e, quantomeno, utili all’economia complessiva dell’atto processuale”. Come spiega Carlo Guarnieri, ordinario di sistema politico italiano e sistemi giudiziari comparati a Bologna (L’indiperndenza della magistratura), in Francia c’è la cosiddetta “obligation de réserve”: l’articolo 10 dello Statut de la magistrature recita che “ogni manifestazione di ostilità al principio e alla forma di governo della repubblica è proibita ai magistrati, come del resto ogni dimostrazione di natura politica incompatibile con la riserva che impone la funzione che esercitano”. In Italia la giurisprudenza della sezione disciplinare del Csm insegna che le cose vanno in un altro modo. È stato assolto il magistrato collaboratore di un giornale che, rispondendo privatamente a un lettore denunciato per possesso di armi da guerra, aveva coperto di insulti sia la polizia (“banda di ignoranti e di imbecilli... crassa ignoranza... una tale bestialità”) sia il perito del tribunale (“un imbecille”). Assolto anche il magistrato che aveva distribuito, all’interno degli uffici giudiziari, un volantino su un pubblico dibattito con allegati due scritti di un prete operaio prossimi all’istigazione a delinquere: “Occorre demolire il sistema puntellato da giudici e polizia e perfino dalla chiesa. Occorre far sparire i padroni e creare una nuova società con una giustizia diretta dal popolo E...] Bisogna affrettare l’abbattimento dei padroni, l’abbattimento di questa giustizia”. Assolta la toga che aveva definito quello di Giuseppe Pinelli “suicidio per conto terzi” e parlato di Luigi Calabresi come del “commissario finestra”. Quelli della sezione hanno riconosciuto, bontà loro, che “alcune espressioni impiegate davano prima facie l’impressione di aver superato il limite che gli esponenti dell’ordine giudiziario dovrebbero rispettare allorquando esercitano la loro libertà di manifestazione del pensiero”. Poi, però, hanno spiegato: “Tuttavia bisogna valutarle tenendo conto… (…) del particolare clima di scontro che aveva caratterizzato quegli anni”. Assolto pure il magistrato che, riferendosi all’epoca del terrorismo, aveva scritto sul “manifesto” in un pencolante italiano: “Già oggi è una realtà che questo tipo di processi possono trattarli soltanto quei giudici culturalmente attrezzati ad accettare senza obiezioni la rinuncia a ogni elementare cautela giuridica quando si tratta di incarcerare presunti terroristi”. Gli aguzzini, insomma. “L’affermazione, pur potendo essere letta come offensiva dei magistrati che trattavano processi di terrorismo,” si legge nella sentenza, “rappresentava certamente un’opinione critica, certamente sgradita, ma liberamente manifestabile, anche da parte di un magistrato, in virtù dell’articolo 21 della Costituzione”. Nessuna sanzione neanche per il presidente del Tribunale del riesame di Lecce, che, in un messaggio di posta elettronica inviato a venti colleghi, e finito sulle pagine di un quotidiano locale, chiamava l’allora (come oggi) presidente del consiglio, Berlusconi, “Silvio Banana”, definendolo “decisamente fesso” e invocava “una commissione d’inchiesta, pubblica e trasparente, sul rincoglionimento degli italiani”. Idem per il procuratore della repubblica che, impegnato in un’indagine sull’utilizzo di minorenni nella realizzazione di materiale pornografico, in un guazzabuglio di dichiarazioni si spingeva fino a dire: “In Italia esiste, ed è innegabile, una vera e propria lobby dei pedofili, che è appoggiata anche da molti esponenti di partiti politici (…) i ministri Bianco, Fassino e Turco E...] sembrano voler escludere in ogni modo che il materiale pedopornografico sia prodotto in Italia” (“si era in sostanza trattato soltanto,” hanno sentenziato alla disciplinare, “di un modo di richiamare l’attenzione anche delle altre istituzioni su un fenomeno presentato spesso alla pubblica opinione senza la doverosa sottolineatura della sua gravità”). E stesso trattamento anche per il consigliere della corte d’appello di Genova che, di nuovo riferendosi a Berlusconi e ai suoi ministri, dichiarava in un’intervista: “Questo squallido, pessimo governo sta distruggendo la struttura stessa del paese, la sua immagine, il suo futuro (…) adesso tiriamo via questa brutta gente. E un impegno che ho preso e non mi sembra poco”. A quelli del Csm, invece, è sembrato poco. Addirittura, non è stata proprio esercitata l’azione disciplinare per il caso del consigliere della corte d’appello di Torino (finito peraltro sotto processo penale) che, come direttore di un periodico, aveva dato il via libera alla pubblicazione di un articolo sul processo Eichmann dove era scritto: “Il popolo ebraico, in quanto tale, dovrebbe ritenersi deicida e conseguentemente amorale e perciò indegno di giudicare chiunque”. E la sezione disciplinare ha continuato a sonnecchiare pure sulla vicenda del giudice istruttore che, partecipando a una trasmissione televisiva gestita da un partito politico, il Movimento sociale italiano, aveva accusato le istituzioni repubblicane di “atteggiamento criminale” e “persecuzione” nei confronti dei fascisti. Tranne risvegliarsi dal torpore quando un incauto magistrato le aveva tirato contro una sventagliata di mitra per la decisione di condannare alcuni esponenti dell’ordine giudiziario risultati iscritti alla loggia P2. Parlando con un cronista dell’agenzia Ansa, la toga ci aveva messo il carico da novanta: “Si tratta, per quanto mi riguarda, di un tipico atto di ferocia istituzionale da dilettanti del potere. Nell’indifferenza dei garantisti, la lottizzazione di condanne e assoluzioni chiude questa caccia alle streghe in base a norme retroattive dopo un processo illegale davanti a un organo fuori legge. Con questi ingredienti la cucina di Palazzo dei Marescialli non poteva che sfornare pietanze da pattumiera”. Questo sì, l’hanno condannato. Quando ci vuole, ci vuole. I magistrati italiani si ritengono liberi di esprimere i giudizi che meglio credono e su chicchessia. Ma se qualcuno se la prende con loro, diventano permalosi come le scimmie. Quando il procuratore generale di Ancona, G.D., ha pubblicato sul suo blog 43 sentenze con clamorosi svarioni e salti logici (tipo: “si concedono le attenuanti generiche perché l’imputato è africano e l’Africa è povera”) è successo il finimondo. L’Anm ha convocato un’affollatissima assemblea e il caso è finito, per sospetta incompatibilità ambientale, direttamente al Csm, che in un soprassalto di dignità s’è dichiarato incompetente, rimettendosi alle decisioni del ministro e del procuratore generale della cassazione. Non senza aver prima stigmatizzato “la caduta di stile”. E si trattava di un collega. Figuriamoci quando la critica arriva da una controparte. Ne sanno qualcosa gli avvocati, difensori di T.M., agli arresti domiciliari nella casa di Poggiomarino, senza alcuna restrizione agli incontri e ai contatti con persone estranee al nucleo familiare. Il padre di T.M., che abitava a pochi metri di distanza, era stato fulminato da un ictus e i legali avevano chiesto al giudice per le indagini preliminari di autorizzare il loro cliente a vegliare la salma e a partecipare al funerale. Il Gip aveva risposto asciutto: “Visto si autorizza il T. a presenziare ai funerali del padre per il tempo strettamente necessario e con scorta”. La veglia, quella no. Negata. Incomprensibilmente, dato che T., in casa sua, poteva incontrare chi voleva. Così, gli avvocati si erano rivolti al presidente del Tribunale di Torre Annunziata, al vicepresidente del Csm e al ministro della giustizia, chiedendo loro di valutare un’eventuale azione disciplinare. Nell’esposto, il provvedimento di diniego dell’autorizzazione (e non il suo firmatario) veniva qualificato come “odioso, disumano, sconcertante e gratuitamente contrario al senso di umanità”. Il magistrato ha immediatamente presentato querela per diffamazione, vincendo in primo grado. Poi, in appello, gli avvocati sono stati assolti, ma è comunque stato riconosciuto a loro carico l’“eccesso colposo nell’esercizio del diritto di critica per il superamento del limite della continenza per l’imprudenza dovuta allo stato emotivo”. Allora hanno deciso di andare avanti fino alla cassazione. Che si è pronunciata il 20 gennaio 2009, respingendo il loro ricorso. Ha scritto la corte, e cioè i colleghi del magistrato denunciante: “Non c’è dubbio che i provvedimenti giudiziari possono essere oggetto di critica, anche aspra, in ragione dell’opinabilità degli argomenti che li sorreggono, ma non è lecito trasmodare in critiche virulente, concretanti il dileggio di colui che li ha redatti”. Nel 1983, racconta Mellini (Il golpe dei giudici), C.M., sostituto di una procura del Sud, aveva ricevuto un rapporto della Digos dove si escludeva che un certo gruppo potesse essere autore di alcuni volantini eversivi. “Letto il rapporto e ritenuto che il collettivo studentesco si dovesse identificare con quello che aveva emesso il volantino (cioè esattamente il contrario di quanto affermato nel rapporto) il sostituto ordinava la cattura di sei giovani [...] con l’imputazione di apologia di reato e associazione sovversiva. Il provvedimento veniva revocato dal Tribunale della libertà e dal giudice istruttore.” A quel punto, il fratello di uno degli imputati, avvocato, aveva provocatoriamente proposto al tribunale un’istanza d’interdizione per infermità mentale del magistrato. L’autorità giudiziaria non si era limitata a respingerla (giustamente, almeno dal punto di vista giuridico), ma aveva proceduto “contro l’avvocato nientemeno che per calunnia, con emissione di un mandato di cattura che i carabinieri erano andati a eseguire al Tribunale di Milano, dove il legale stava sostenendo una causa”. Anche questo provvedimento era stato poi revocato dal Tribunale della libertà, ma la vicenda è istruttiva. Sempre più spesso, quando qualcuno le attacca, le nostre toghe corrono a chiedere la protezione dell’intero Csm. E il meccanismo delle cosiddette “delibere a tutela”. Spiega De Nardi: “A partire dalla metà degli anni settanta sono stati davvero numerosi i pronunciamenti con cui il consiglio superiore è pubblicamente intervenuto per tutelare vuoi singoli magistrati vuoi interi uffici giudiziari E.. .1 da attacchi denigratori e calunniosi E...] le deliberazioni in parola. hanno subìto una vera e propria impennata nell’ultimo quindicennio. Alla luce della scrupolosa ricognizione che abbiamo tentato di effettuare, pare che le deliberazioni a tutela approvate dal 1976 e sino ai nostri giorni siano le seguenti”. L’elenco occupa 25 pagine, fitte. Il tenore è questo: “Gli atti dei magistrati possono certamente essere discussi e criticati, le soluzioni giuridiche da essi adottate possono essere contestate, le loro ipotesi accusatorie possono risultare infondate, ma, comunque, non possono essere mai adoperate, sotto il pretesto della libertà di critica, espressioni oltraggiose verso il singolo magistrato o vilipendiose dell’intero ordine giudiziario”. Non sia mai.

UNA CARRIERA A PROVA DI ASINO

I magistrati sono l’ultima corporazione rimasta intatta. Hanno conservato tutti i poteri e i privilegi. Formano la lobby più forte nel paese. Giampaolo Pansa, 14 dicembre 2008 Nel mondo dorato di Sua Eccellenza Le paghe più alte d’Europa. Le pensioni d’oro. E 51 giorni di ferie l’anno. Sono i privilegi di un sistema unico al mondo. Dove si avanza in base alla sola anzianità. E dopo 28 anni tutti raggiungono lo status di magistrato di cassazione con funzioni direttive. Anche i brocchi rimasti sempre in un tribunale di provincia. “Tratto caratteristico che emerge dalla lettura dei tremila elaborati è, invero, la palese inettitudine della maggioranza dei candidati al componimento scritto, riscontrabile anche in parecchi di coloro che hanno ottenuto l’ammissione. I candidati non sanno esprimersi in modo chiaro e in forma passabile E...] Buona parte dei temi sono così poveri da stentare a credere che gli autori legittimamente si fregino del titolo di dottore in giurisprudenza. Di fronte a parecchi di essi si sarebbe tentati di interdire in perpetuo ai redattori l’accesso ai pubblici concorsi.” Lo spietato giudizio è contenuto nella relazione del presidente della commissione d’esami per l’ingresso nella magistratura indetto nel marzo del 1986. E passato quasi un quarto di secolo, ma la situazione è cambiata solo in peggio. L’ultima selezione, nel novembre del 2008, ha trasformato i locali della Fiera di Rho in una casbah dove sono state sequestrate decine di codici non consentiti, ma regolarmente timbrati dal ministero, e per 65 candidati è scattata l’espulsione. Stesso provvedimento, come si legge nelle Otto pagine della relazione inviata al ministero dal presidente Maurizio Fumo, anche “per un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima”. Il Csm ha archiviato la pratica. Tutto regolare. Era un concorso truffa ma il Csm non l’annulla, ha titolato “il Riformista”, Un’indignazione sacrosanta, ma fin troppo ingenua. L’esame d’accesso alla professione delle toghe è da sempre poco più che una pagliacciata. L’ha dimostrato, anni fa, il solito Di Federico, dio lo protegga, ché se un giorno lo beccano a passare con il semaforo rosso i magistrati gli danno direttamente l’ergastolo. Il diabolico professore bolognese ha scovato 500 candidati che, in attesa di conoscere i risultati, del primo concorso al quale avevano partecipato, si sono sobbarcati anche la fatica del successivo. Ebbene, il 60% di coloro che in seguito sarebbero stati dichiarati vincitori della prima prova, e quindi accolti nella casta della magistratura, non ha superato gli scritti della seconda. “Si può quindi dire con tutta sicurezza che E...] il concorso non è adatto a distinguere i candidati che hanno le qualificazioni volute da quelli che non le hanno,” ha concluso il professore emerito. Un esame in cui la maggioranza dei promossi debba la sua performance al caso, proprio come in una lotteria, non è una cosa seria. Ma c’è, in questo, una coerenza. Perché il concorso è solo il primo gradino di un’intera carriera che negli anni i magistrati sono riusciti a rendere davvero a prova di asino. Un giorno una leggina ad hoc, quello dopo una circolare furbetta del Csm, alla fine hanno messo a punto un sistema praticamente infallibile. Dove, bandita di fatto ogni forma di controllo e abolita qualunque meritocrazia, si sale gradino dopo gradino la scala gerarchica grazie al mero scorrere del tempo, in base alla semplice anzianità di servizio, arrivando al vertice (magistrato di corte di cassazione con funzioni direttive superiori) esattamente (e immancabilmente) dopo 28 anni. E dove, nella scelta dei dirigenti, se un candidato ha 6 anni in magistratura più di un altro deve essere prescelto a meno che non sia “inadeguato”, o che quello meno esperto abbia “spiccatissime doti professionali”, quindi sia una specie di genio. Ha detto Sabino Cassese a proposito del pubblico impiego in generale: “Chi vuole, lavora; chi no, se ne astiene”. E una fotografia che ben s’adatta al mondo delle toghe. Ci si può dar da fare, sgomitare, magari ottenere la raccomandazione giusta e guadagnare incarichi di sempre maggior impegno e prestigio. Oppure limitarsi a scaldare la sedia, già con ciò facendo danni; ma, e questo è l’aspetto davvero incredibile, comunque con la garanzia di una continua e regolare crescita in termini di status e di busta paga. Si tratta, con ogni probabilità, di un caso unico al mondo. Il giudice italiano, o il pubblico ministero, sa con certezza che, se non prende un abbaglio madornale o non si fa sbattere in galera, finirà la sua carriera con il rango di magistrato di cassazione con funzioni direttive e tutti in coro a chiamarlo Eccellenza. Anche se è un brocco ed è rimasto tutta la vita a scartabellare fascicoli nel tribunale di un paesino sperduto, dove il reato più grave è il furto di pecore. Sarebbe come se tutti i giornalisti iniziassero il loro mestiere in cronaca nera sapendo che forse resteranno per sempre inchiodati a leggere i mattinali delle questure, ma comunque chiuderanno in bellezza, con la posizione, lo stipendio e la pensione di direttore del “Corriere della Sera”. Alzi la mano chi non ci metterebbe la firma. In sede di Costituente ci si pose il problema se inserire nella carta un espresso riferimento al trattamento economico delle toghe. Prevalse l’orientamento contrario, ma fu comunque approvato un ordine del giorno: “L’assemblea, convinta che l’indipendenza della magistratura non potrà essere conseguita se non si assicuri al magistrato anche l’indipendenza economica, che gli consenta completa serenità di lavoro, ritenendo che, data la delicatezza e l’importanza sociale della sua funzione, sia giusto che ciò non venga dimenticato mentre si prepara la Costituzione dello stato, indica alla camera legislativa la necessità di una concreta soluzione”. Il parlamento ha preso il tutto in parola. O, meglio, è stato costretto. Sempre più spaventato dal potere delle toghe, infiltrate fin dentro le sue stanze, e incessantemente lavorato ai fianchi, ha ceduto negli anni praticamente a tutte le loro richieste e ai veti sempre più insistenti. E le rare volte che ha cercato di resistere è stato indotto ad assai più miti consigli. Oggi i magistrati italiani guadagnano un pozzo di denaro. Le loro paghe, le più alte di tutta l’Europa continentale (quelli al vertice prendono il doppio dei colleghi francesi), sono blindate da un sistema di scala mobile che non esiste altrove. Con buona pace delle sentenze in perenne ritardo, le toghe possono facilmente arrotondare il già pingue stipendio con gli incarichi extragiudiziari. Se lo vogliono, hanno diritto a ritardare l’età della pensione fino a 75 anni, dieci in più che in Francia e in Germania (con il risultato che già nel 2002 l’assegno medio di quiescenza era pari a 6000 euro per 13 mensilità e la liquidazione arrivava a 330.226 euro). Quanto a ferie, detengono un vero record: 51 giorni l’anno, che erano addirittura 60 fino al 1979. Hanno, insomma, tutti i migliori motivi per raggiungere quella serenità che tanto stava a cuore ai costituenti. Il problema è che dei manager hanno solo lo stipendio e i benefit: affidato alle cure dei magistrati, il sistema giustizia è andato a rotoli. Mentre loro continuavano a piagnucolare per ottenere ancora qualcosa in più. “Non bisogna cadere nel rischio che si possa ingenerare l’erronea convinzione della sussistenza di privilegi, che potrebbe arrecare discredito all’immagine della magistratura,” ha scritto, il 23 gennaio del 2007, con penna non proprio scorrevole e involontario umorismo, la allora segretaria generale del Csm Donatella Ferranti (ora capogruppo del Pd alla commissione giustizia di Montecitorio). Un tempo quella delle toghe era una carriera tosta per davvero. Nel 1965 erano in tutto 6882. Il 65,7% di loro, pari a 4523, stava nelle due fasce più basse della scala gerarchica, quelle che raggruppavano magistrati di tribunale, aggiunti giudiziari e uditori. Solo 1780 erano in appello. E ad appena 493 era riuscito di arrivare a sedere in cassazione. La selezione era dunque durissima. Nelle commissioni di concorso per i liveffi più elevati gli esaminatori venivano scelti nel top della categoria e giudicavano soprattutto sulla base degli atti giudiziari dei candidati. Raramente si passava al primo turno. Comunque, i bocciati rischiavano addirittura di essere buttati fuori. E quelli che passavano l’esame finivano in una graduatoria: se i posti disponibili erano 100 e risultavano idonei in 1000, allora per gli ultimi 900 di loro si era trattato solo di fatica sprecata. Dovevano ripresentarsi al concorso successivo. E incrociare le dita. Quanto la scrematura fosse efficace lo dimostrano i dati raccolti da Di Federico: tra il 1952 e il 1962, il 52,2% dei magistrati è andato in pensione avendo (spesso da poco) raggiunto il grado di appello. Addirittura il 2,2% ha appeso la toga al chiodo quando era ancora fermo al primo scalino, quello del tribunale. 1125,6% è riuscito a chiudere la carriera in cassazione. E appena 1 magistrato su è arrivato alle funzioni direttive superiori della suprema corte (come tuttora accade negli altri paesi dell’Europa continentale).

Todos Caballeros

La farsa del tirocinio, al termine del quale nessuno viene mai bocciato da dieci anni. E quella degli esami per gli avanzamenti di carriera, dove si registra il record mondiale dei promossi: il 99,6%. Ecco perché, mentre il ministro di turno si voltava dall’altra parte, il 67% delle toghe ha conquistato un ruolo superiore alle funzioni svolte. Poi, tra il 1966 e il 1973, il combinato disposto di due leggi ben congegnate, note come Breganze e Breganzone e relative alle promozioni all’appello e alla cassazione, ha assestato un colpo mortale al sistema. Entrambe, riaffermando ovviamente la necessità di valutazioni di professionalità sempre più rigorose, hanno fatto fuori le commissioni d’esame composte dagli alti gradi della magistratura e affidato il compito direttamente al Csm. E introdotto, in base a una logica davvero stringente, il cosiddetto “ruolo aperto”. Vuol dire che, se si liberano 100 posti di magistrato d’appello e alla valutazione vengono promossi in 1000, gli ultimi 900 in graduatoria, quelli che non ottengono la poltrona, in attesa che si liberino altri posti continuano sì a esercitare le funzioni che già svolgevano, ma con un rango, e uno stipendio, più alti. Uno schema, quello ideato da Uberto Breganze, avvocato vicentino e parlamentare Dc, molto più che semplicemente demenziale. Dove, a quel punto, diventava ancor più decisivo il baluardo di una selezione a maglie strette. Ma, se già prima era stato lecito nutrire più che seri dubbi sull’opportunità di affidare il delicato compito all’organo di governo della stessa magistratura, tanto più il discorso vale a partire dal 1967, anno della seconda riforma del sistema elettorale del consiglio. Fino a quel momento, i magistrati dei diversi livelli di carriera avevano eletto separatamente i loro rappresentanti al Csm e quelli di grado più elevato erano stati nettamente sovrarappresentati, con l’assegnazione di 10 seggi su 14 (le toghe dei tribunali, pur costituendo il 68% dell’intero corpo elettorale, ne detenevano solo 4). Insomma, a comandare erano i vertici della piramide. Punto e basta. Con la riforma del 1967, che eliminò il voto separato per gradi, la base (cioè le toghe di rango più basso) si ritrovò in mano un grande potere: senza il suo consenso, quelli dei gradi più alti non sarebbero mai stati eletti. Non ci fu troppo da attendere per poter cogliere i primi riflessi del processo di democratizzazione del Csm sulle sue prese di posizione. Una prima piroetta destinata ad avere effetti devastanti si registrò nell’arco di un solo anno. Nel 1967 il consiglio aveva stabilito, con un voto quasi plebiscitario (è l’unanimità dei membri supertogati), che gli esami di professionalità dovessero necessariamente basarsi sugli atti giudiziari dei candidati (il che aveva anche l’effetto di impedire progressioni di carriera a quelli fuori ruolo perché impegnati in altre attività, come per esempio quella parlamentare). La base non aveva proprio digerito la decisione. E si prese la rivincita dodici mesi dopo, quando il consiglio eletto con la nuova legge capovolse le sue convinzioni, arrivando a sostenere, con il voto di nuovo compatto ma di segno diametralmente opposto dei magnifici dieci, che l’analisi di sentenze e requisitorie fosse addirittura lesiva dell’indipendenza della magistratura. Un passaggio storico, che aprirà la strada alle valutazioni complessive, basate su capacità, preparazione e diligenza delle toghe. Cioè alla piena discrezionalità. E a un omertoso spirito di casta. Quando, in un convegno milanese del 1988, Falcone ebbe l’ardire di inserire le carenze di professionalità dei magistrati tra le cause della crisi della giustizia, nel successivo comitato direttivo centrale dell’Anm venne presentata una mozione che chiedeva di applicargli la censura (non fu approvata solo perché formalmente non prevista a termini di statuto). Peggio andò, l’anno dopo, all’ammazzasentenze Corrado Carnevale, che avanzò le stesse perplessità dalla tribuna di una manifestazione pubblica ad Agrigento. Il procuratore della città, che evidentemente non aveva troppo d’altro da fare, aprì contro l’allora presidente di sezione della corte di cassazione addirittura un procedimento penale per “vilipendio della magistratura”. La strada dell’aspirante magistrato (un tempo doveva godere di “moralità incensurabile”, ora è sufficiente che questa non sia “dubbia”: e c’è una bella differenza) è in discesa fin dall’inizio, Chi si presenta davanti alla commissione d’esame, nominata naturalmente dal Csm e composta in grandissima parte da magistrati (compreso il presidente, sono 21 su 29), sa che se verrà bocciato non dovrà dire addio per sempre al sogno di indossare la toga. “Non hai vinto, ritenta” diceva il bigliettino dei gratta e vinci di un tempo. Vale anche per loro. C’è una seconda chance. E poi anche una terza. Alla fine, chi la sfanga diventa magistrato ordinario e deve affrontare un periodo di tirocinio lungo un anno e mezzo, sotto la supervisione, indovinate un po’..., del Csm. Lo stage è diviso in due periodi e al termine di ciascuno bisogna affrontare una nuova valutazione del consiglio. Che, se non è soddisfatto, può ordinare un prolungamento del tirocinio. E se pure al termine dei tempi supplementari mantiene un’impressione negativa, può “disporre la cessazione del magistrato dal servizio”. Detta così sembra una cosa seria. Non lo è affatto. “Dalla lettura dei verbali del Csm degli ultimi dieci anni non risulta [...] vi siano casi di valutazioni negative dei magistrati in tirocinio che abbiano determinato la dispensa dal servizio o le ripetizioni di parte del tirocinio stesso,” annota Di Federico. Superato lo scoglio, si fa per dire, dell’apprendistato la nostra toga sa esattamente, come nessun altro essere umano al mondo, cosa l’aspetta. E cioè: a 2 anni dal decreto di nomina sarà magistrato di tribunale, a 13 consigliere d’appello, a 20 in cassazione e a 28 idoneo alle funzioni direttive superiori della suprema corte. In teoria, tutti questi passaggi, e i relativi aumenti di stipendio, non sono affatto automatici. Sì, perché bisogna superare la valutazione espressa dal Csm sulla base delle indicazioni dei consigli giudiziari, che sono poi le sue succursali locali, dove a votare sono solo i magistrati (e non anche i rappresentanti degli avvocati). Ma i pareri che vengono dalla periferia sono sempre generosi. Anzi, di più. “Normalmente sono del tutto appiattiti in generici contenuti elogiativi che non forniscono alcuna indicazione sulle reali attitudini professionali del magistrato,” scrivono Fantacchiotti e Fiandanese. Come mai l’ha spiegato con la consueta franchezza il giudice Lima: “Da una mail inviata da un componente del consiglio romano a una mailing list ho appreso (con indicibile stupore) che solo da poco sarebbe stata interrotta nella capitale la prassi per la quale l’incarico di redigere i pareri per la progressione in carriera dei magistrati veniva assegnato di volta in volta a un collega appartenente alla stessa corrente di quello da valutare. E inutile dire con quali conseguenze sul sistema”. Di Federico ha pensato invece che fosse utile documentane, queste conseguenze. “Tra il maggio del 1979 e il giugno del 1981 il Csm ha effettuato 4034 valutazioni di professionalità riguardanti i quattro livelli, dal magistrato di tribunale a quello di cassazione con funzioni direttive superiori: i promossi sono stati 4019 (cioè il 99,6% del totale). Solo 15 hanno avuto valutazioni negative, tutte motivate da gravi condanne disciplinani o da procedimenti penali pendenti. L’orientamento a effettuare le promozioni sulla sola base dei requisiti minimi di anzianità emerge anche dall’analisi delle 9656 valutazioni effettuate negli 11 anni che vanno dal 1993 al 2003: solo 117 sono state quelle negative e 94 magistrati avevano una o più sanzioni disciplinari o provvedimenti penali.” I dati sono più analiticamente riportati in Recruitment, professional evaluation, career and discipline ofjudges and prosecutors in Italy. Lo studio (sempre di Di Federico) dice che su 3307 pratiche per la promozione a magistrato di tribunale presentate nello stesso decennio il pollice verso è scattato 3 volte. Fa lo 0,09%. Il tragico risultato di tanto buonismo è sintetizzato nelle parole di Mellini (La fabbrica degli errori): “Un esame delle motivazioni di una quantità sempre crescente di provvedimenti giudiziari E.. .1 consente di constatare una sconfortante mancanza di qualità di coloro che ne sono autori [...] il linguaggio stesso denuncia un assai basso livello culturale [...] la grammatica è spesso zoppicante e la sintassi alquanto vaga. I ragionamenti appaiono spesso sconnessi, sconcertanti, addirittura grotteschi.” Secondo un’inchiesta pubblicata su “Panorama” del 9 aprile 2009, dal 2005 il consiglio ha stoppato solo 39 avanzamenti di carriera (ma in genere i respinti vengono promossi 2 o3 anni dopo e alla fine arrivano comunque al vertice della carriera). Tutti gli altri candidati hanno regolarmente passato l’esame. Anche quelli che s’erano beccati una delle rare condanne della sezione disciplinare. Come, per esempio, G.B., magistrato d’appello in un tribunale marchigiano: “Censurata perché da pubblico ministero aveva dimenticato di denunciare la sua incompatibilità in procedure di aggiudicazione che potevano interessare una società di costruzioni di cui era socia con marito e fratello,” racconta il settimanale, “ha ottenuto ugualmente la nomina in cassazione”. Affinché scatti il semaforo rosso del consiglio bisogna che la toga si sia messa nei guai con la giustizia. È il caso di G.D., giudice in Liguria, cui sono stati fatali per l’accesso alla corte d’appello due procedimenti disciplinari (con la perdita di un biennio di anzianità), dopo altrettanti processi penali, uno dei quali l’ha condannato a un anno e quattro mesi di carcere: “Si occupava di fallimenti,” dice “Panorama”, “ed era stato accusato di aver fatto una nomina in cambio di 27 mffioni di lire e della promessa di ulteriori 50. La corruzione non è stata provata, ma diverse anomalie sì, compresa la falsificazione di un atto giudiziario”. Stesso discorso per P.C., giudice per i minori in Basilicata, che per un banale diverbio aveva aggredito una signora sul molo di un porto e, già che c’era, riempito di botte il di lei marito. In un sussulto di dignità, il Csm gli ha negato il passaggio alla cassazione: “Solo una personalità priva del necessario, minimo equilibrio,” si legge negli atti, “può manifestarsi in una reazione così arrogante e sproporzionata”. Una riprova di come funzionino le valutazioni si è avuta 1115 aprile del 2009, quando 21 mafiosi del clan barese degli Strisciuglio sono stati scarcerati perché non era mai stata depositata la motivazione della sentenza di primo grado, emessa il 16 gennaio del 2008. Tutta colpa di R.A.P., che tre mesi prima, sbaragliando 32 concorrenti, era stata promossa a presidente di un tribunale per i minorenni sulla base dei seguenti giudizi: “elevata laboriosità”, “grande attaccamento al lavoro”, “particolari” doti organizzative. Nel gennaio del 2006 R.A.P. era arrivata all’apice della carriera — e dello stipendio — con il riconoscimento delle funzioni direttive superiori della corte di cassazione. Riletti oggi, i verbali dell’assemblea del Csm che aveva dato il via libera suonano come una beffa: “I pareri in atto confermano il giudizio di elevata capacità professionale del magistrato che, specie nei processi di maggiore complessità come quelli in materia di criminalità organizzata, ha assicurato una rapida celebrazione dei giudizi e un elevato livello qualitativo del lavoro”. S’è visto. Ha ammesso il presidente della corte d’appello di Milano, Giuseppe Grechi, in un’intervista al” Giornale” dell’il luglio 2008: “Veniamo promossi tutti, in blocco, a plotoni interi. Invece di una selezione effettiva, c’è una valutazione generale di idoneità per cui alla fine 1199% quando arriva il suo turno viene promosso.” Un dato che non può certo passare inosservato. E infatti in via Arenula sanno benissimo come stanno le cose. Ma il ministro, che dai magistrati è di fatto dipendente e ne è letteralmente circondato, è costretto a fare finta di nulla. Ha scritto Di Federico in La drammatica testimonianza degli avvocati penalisti sui diritti della difesa e le difficili prosp ettive di riforma: “Tali orientamenti [del Csm] non hanno trovato sulla loro strada quei contrappesi che la legge pur prevede e che in via principale fanno capo al ministro della giustizia. Questi infatti deve ricevere copia di tutte le valutazioni compiute dai consigli giudiziari sui singoli magistrati. Ha anche il potere di formulare le sue osservazioni al Csm, che ne deve tenere conto in sede di delibera. Di fatto, il ministro non ha mai esercitato questo suo potere. Egli infatti potrebbe farlo solo per il tramite di un costante, accurato impegno dei magistrati che prestano servizio presso il ministero. Non può quindi destare meraviglia che ciò non sia avvenuto. Pretendere da chicchessia che eserciti in tutta efficienza i propri compiti in contrasto con i propri personali interessi non è e non può essere un efficace modello per il funzionamento di quei pesi e contrappesi su cui si reggono le istituzioni democratiche”. Lo schema Breganze ha fatto più danni di quello ideato nel 1925 dal finanziere italoamericano Charles Ponzi e riproposto in chiave moderna da Bernard Madoff. Con la regolare promozione in massa di tutte le toghe in base al solo raggiungimento del requisito minimo di anzianità previsto dalla legge per il passaggio da un livello di carriera all’altro, la piramide gerarchica ha finito presto per rovesciarsi. E il numero di coloro che hanno guadagnato un grado superiore alle funzioni realmente esercitate è diventato imbarazzante. Nel 2002 si trovavano in questa condizione 1471 dei 1560 magistrati d’appello (pari al 94,3 % del totale), 1509 dei 1533 di cassazione (98,4%) e 1047 dei 1137 delle funzioni direttive superiori della suprema corte (92,1%). Un esercito di soli generali. E la situazione non è poi di molto migliorata negli anni più recenti. Si legge nel Libro verde sulla spesa pubblica del settembre 2007: “Nell’ambito degli uffici giudiziari con funzioni giudicanti (corte di cassazione esclusa) attualmente ben il 67% dei magistrati ha un ruolo, e una corrispondente retribuzione, superiore alle funzioni svolte.” Due su tre delle tante toghe che tutte le sante mattine dal palco di questo o quel convegno ci bombardano con richieste di maggiori finanziamenti per una giustizia che ha le casse vuote sono dunque pagati più di quanto sarebbe necessario. Una percentuale che sale addirittura a quattro su cinque (e oltre) in alcuni distretti di corte d’appello come Milano, Firenze, Trento e Genova. Non è dunque colpa del destino cinico e baro se in Italia il 69% del budget della giustizia se ne va in stipendi, contro il 57 % della Germania e il 47 % della Francia.





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