LIBRI IN REDAZIONE, RECENSIONE: (LIVIADIOTTI) MAGISTRATI, L'ULTRA CASTA
Data: Venerdì, 04 settembre @ 09:34:48 CEST
Argomento: Cultura


Nella foto, l'autore della recensione -

Vostro onore lavora 1.560 ore l’anno che fanno 4,2 ore al giorno. Ma, quando arriva al vertice della carriera guadagna quasi il quintuplo degli italiani normali. Gli esami per le promozioni sono una farsa: li supera il 99,6 per cento dei candidati. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha assolto persino il giudice sorpreso con un minorenne nei bagni di un cinema. Secondo la sentenza, costata allo Stato 70 miliardi di lire, era “innocente” perché tre anni prima aveva battuto la testa. L’Immagine pubblica della Magistratura italiana: “lenta”, “persecutoria”, “ridicola”, “superficiale”, “caotica”, “politicizzata”.

La scomoda verità sui 9.116 uomini che controllano l’Italia: gli scandalosi meccanismi di carriera, gli stipendi fino all’ultimo centesimo, i ricchi incarichi extragiudiziari, le pensioni d’oro, la scala mobile su misura, gli orari di lavoro, l’incredibile monte-ferie, i benefit dei consiglieri del Csm. E, parola per parola, le segretissime sentenze-burla della Sezione disciplinare capace di assolvere perfino una toga pedofila.



LIBRI IN REDAZIONE

Caserta (recensione a cura di Ferdinando Terlizzi) – Stefano Liviadiotti, giornalista de “L’Espresso” – autore del pregevole best seller “L’altra casta. L’inchiesta sul sindacato”, è tornato in libreria con un lavoro sconvolgente che ha messo a nudo, purtroppo, la gravissima realtà in cui si trova la magistratura italiana ( il fortissimo terzo potere dello Stato ) scoprendo le “pecche” ( io direi le “pacche” del culo ) di moltissimi giudici: “Quella dei giudici, e dei pubblici ministeri, - è scritto nel seconda di copertina edito da Bompiani - “infatti, è la madre di tutte le caste. Uno stato nello Stato, governato da fazioni che si spartiscono le poltrone in base a una ferrea logica lottizzatoria e riescono a dettare l’agenda della politica. Un formidabile apparato di potere che, sventolando spesso a sproposito il sacrosanto vessillo dell’indipendenza e facendo leva sull’immagine dei tanti magistrati-eroi è riuscito a blindare la cittadella della giustizia, bandendo ogni forma di meritocrazia e conquistando per i propri associati un carnevale di privilegi. Per la prima volta, cifra per cifra, tutta la scomoda verità sui 9.116 uomini che controllano l’Italia: gli scandalosi meccanismi di carriera, gli stipendi fino all’ultimo centesimo, i ricchi incarichi extragiudiziari, le pensioni d’oro, la scala mobile su misura, gli orari di lavoro, l’incredibile monte-ferie, i benefit dei consiglieri del Csm. E, parola per parola, le segretissime sentenze-burla della Sezione disciplinare capace di assolvere perfino una toga pedofila”.
Per capire come sia considerata la magistratura in Italia basta leggere “L’Immagine pubblica della Magistratura italiana” un tomo di 399 pagine pubblicato nel 2006. Gli aggettivi più usati sono: “lenta”, “persecutoria”, “ridicola”, “superficiale”, “caotica”, “politicizzata”. Colpa, è opinione diffusa, anche della scarsa preparazione dei magistrati.
A Roma si sono tenute settanta udienze di un processo penale con un imputato defunto. In Sicilia una causa sulla proprietà di alcuni terreni è iniziata all’epoca del congresso di Vienna e si è conclusa dopo 192 anni. Nel 2007 il Tribunale Amministrativo Regionale ( Tar) della Sardegna reintegrava nel suo posto di lavoro un insegnante di educazione artistica che era stato licenziato per assenteismo 1996. Si era suicidato l’anno successo. Al Tar lo hanno scoperto solo quando la notizia è uscita sul giornale undici anni dopo. Certamente non da promozione il comportamento di un altro giudice del Tribunale di Taranto il quale il quale ha convocato l’ennesima udienza del processo per il fallimento appartenuta a tale Osvaldo Salatino. “Il giudice dà atto”, ha scritto con tono seccato, “che né il fallito né alcun creditore sono comparsi”. Bastava dare un’occhiata agli incartamenti processuali dove la di lui moglie veniva indicata come vedova Salatino…
A Natale del 2008 la signora M.B. ha ricevuto nella sua abitazione di Palestrina un avviso di cancelleria. Convocava per gennaio suo figlio F., già condannato per furto davanti al Tribunale del riesame di Piazzale Clodio. Era successo che una stazione dei carabinieri della zona aveva manifestato preoccupazione per la presunta pericolosità di F. e un giudice s’era risolto ad avviare un procedimento per stabilire se meritasse una qualche misura cautelare, tipo l’obbligo di firma o il divieto di andarsene a zonzo durante la notte. Il ragazzo si sarebbe dovuto difendere, dall’accusa di rappresentare una minaccia. Solo che non avrebbe mai potuto farlo. Perché era morto, stroncato da un’overdose, quasi due anni prima. Il Tar della Sardegna nel 2007 reintegrava nel suo posto dio lavoro una insegnante di educazione artistica che era stata licenziata per assenteismo nel 1996. Si era suicidato l’anno successivo. Al Tar hanno appreso la notizia quando è uscita suo giornali.
Diciotto minuti… e la seduta è tolta
E’ la durata media delle udienze penali. Solo tre su dieci si concludono con una sentenza. Tutte le altre vengono rinviate. Di quattro mesi e mezzo. E una volta su 4 per colpa delle toghe. Ecco perché si sono accumulati 3 milioni e 262 mila processi. Mentre nei tribunali francesi l’arretrato non sanno nemmeno cosa sia. Al tribunale di Roma ( ma non solo ) è stato constatato ( dall’autore del libro ) che le udienze iniziano spesso dopo il tempo stabilito, che i testimoni sono convocati alle nove per essere sentiti, quando va bene alle 12, che il 70% delle udienze finisce con un rinvio a causa degli errori procedurali dei magistrati. Alla lentezza del sistema si somma la sciatteria di chi l’amministra sapendo che non sarà mai chiamato a rispondere delle proprie cantonate. Così si può finire in galera per un errore di traduzione. Essere rilasciati per una distrazione del pubblico ministero. O farla franca grazie ad una semplice omonimia. Secondo un sondaggio pubblicato su “Panorama” del 10 gennaio 08, l’89,7 % degli italiani ritiene necessario spedire a casa i magistrati che risultano troppo lenti e provocano così scarcerazioni per decorrenza dei termini.
“Scarsa produttività. Alta disorganizzazione”, recitava il 5 marzo del 2009 l’inchiesta di copertina dell’Espresso ( Processo ai giudici firmato da Gianluca Di Feo ) e chiariva: ”I giudici dei tribunali sono passati da 654 fascicoli chiusi ogni anno nel 2001 a soli 533 nel 2006. E’ come se un delitto su cinque venisse dimenticato. Ma se si cerca di dare un peso alla statistica allora diventa ancora più grave la frenata delle corti di appello: i 177 casi annuali si sono ridotti a 145”.
“Le nostre toghe si lamentano” – spiega Livadiotti a pagina 63 – “Dicono che nei tribunali manca tutto: dalla benzina per le auto alla carta igienica. Eppure i dati dicono che l’Italia spende per la giustizia come gli altri Paesi. Quando non di più. Ma non c’è nessun mistero. Molto semplicemente, i quattrini se ne vanno tutti per i loro stipendi. Il cui costo è cresciuto del 26% in cinque anni.
La giustizia italiana è ridotta a un circo Barnum!!! La Costituzione stabilisce l’obbligatorietà dell’azione penale. Si tratta solo di una finzione, perché nei fatti il magistrato sceglie ( secondo il clamore che potranno suscitare una volta riportati dai giornali ) quali reati perseguire. Ma la norma impone di finanziare tutte le spese che i pubblici ministeri considerano necessarie alle loro indagini. A partire dalle intercettazioni.
Il matto. L’inconsapevole. E l’ipnotizzatore

La storia del magistrato spiritista uscito di senno. Che, siccome nessuno lo cacciava, dopo dieci anni s’è licenziato da solo. Quella del pubblico ministero assolto perché non sapeva ciò che andava dicendo. E quella del procuratore che per venire a capo delle indagini faceva interrogare un testimone in trance. Ed è stato solo ammonito.
“Giuro di essere fedele alla repubblica italiana e al suo capo, di osservare lealmente le leggi dello stato e di adempiere con coscienza i doveri inerenti al mio ufficio.” E la formula di rito che tutti i magistrati ordinari pronunciano al termine del tirocinio. Poi, però, se ne dimenticano quasi subito. Almeno a giudicare dalla banca dati della sezione disciplinare. Che, a saper dove mettere le mani, è una vera miniera d’oro. Dentro c’è di tutto. Una via di mezzo tra uno sciocchezzaio d’autore e un campionario dj miserie umane, quando non di vere e proprie malef atte. C’è, per esempio, la storia, che risale agli anni settanta, del magistrato uscito di senno. “Dava in escandescenze verbali nei riguardi degli avvocati, manifestando così segni evidenti di alterazione delle facoltà mentali.” Dichiarava, testuale: “Il santo ha detto che oggi vi sono schiaffoni per tutti”. Poi, “si alzava stiracchiando le braccia e dichiarava che l’udienza era interrotta, avendo egli bisogno di riposarsi”. E ancora: entrava nell’ufficio del suo capo esclamando:
“A noi le femmine belle e schiaffoni per tutti” e avanzava “proposte oscene a una signora per bene”. Le indagini rivelarono che frequentava una libreria specializzata in testi di magia nera, spiritismo, cartomanzia, parapsicologia e occultismo, dove teneva pubblicamente “discorsi incoerenti, attirando l’attenzione dei presenti, i quali, lontani da ogni senso morale, si prendevano gioco di lui”. Non è dato sapere cosa gli avesse riservato la vita. Quel che è certo, il pover’uomo era matto come un cavallo matto. Pericoloso per sé e, soprattutto, per gli altri. Da tenere, comunque, ben alla larga dagli uffici di un tribunale. Tanto che perfino la sezione disciplinare del Csm s’era infine convinta della necessità di ricorrere alla sua dispensa. Ebbene, il magistrato in questione ha cessato di far parte dell’ordine giudiziario solo nel 1980. E non perché, sia pure con un ritardo di dieci-anni-dieci, fosse finalmente arrivata la non certo complessa sentenza. Molto più semplicemente, perché, in base a chissà cosa gli frullava nel cervello, aveva deciso lui di dimettersi. Così come nessuno aveva mosso un dito, molti anni prima, davanti alla vicenda, raccontata da Mellini (La fabbrica degli errori; Il golpe dei giudici) , di un magistrato del Tribunale di Roma che, per una questione di cooperative edilizie, aveva bersagliato il primo presidente della cassazione con una querela, respinta perché “proposta da persona inferma di mente”. Il tipo, sempre tutto vestito di bianco e con in testa un cappellaccio nero, camminava al centro delle strade per paura di essere colpito da un vaso di fiori in caduta da qualche davanzale e si rifiutava di riconoscere l’ora legale: “E un falso,” era solito urlare. Una volta, nel corso di un’udienza, saltò in piedi annunciando il proposito di abbandonare l’aula. Al presidente, che gli chiedeva lumi, rispose: “Ho lasciato i ceci sul fuoco”. Era tranquillamente passato in appello e poi pure in cassazione, dove aveva perfino guidato una sezione penale. Scrive Mellini: “Raggiunse i sospirati (dagli altri) limiti di età e morì dopo un anno, lasciando un vistoso peculio a una segretaria dell’Associazione magistrati a riposo, che, ben consigliata da ottimi avvocati, si affrettò a raggiungere un accordo quando gli eredi impugnarono il testamento per infermità mentale”. Nella stessa epoca girava per Roma, racconta sempre Meffini, uno stravagante pretore autore di sentenze esilaranti (“avendo condannato una prostituta per il reato di adescamento, le aveva inflitto come pena accessoria l’interdizione per sei mesi dall’esercizio della professione”): a chi lo incalzava perché decidesse di una certa causa, rispondeva immancabilmente che doveva pensare ai casi suoi, “esibendo una sentenza di separazione dalla moglie che portava sempre in tasca e sulla quale aveva sottolineato vistosamente il passo in cui si dava per accertato il tradimento della signora”. Del resto, è rimasta regolarmente in servizio anche la toga (con un procedimento per ritardi archiviato) cui era stata diagnosticata una psiconevrosi depressivo-ansiosa e che, dopo un ricovero, tirava a campare a botte di ansiolitici e antidepressivi: nel corso del procedimento la sezione aveva notato “un’evidente difficoltà psicologica anche a fornire valutazioni difensive”, decidendo però di chiudere un occhio. Anzi, due. E non è stato facile neanche decidere di rimandare a casa un magistrato che teorizzava il rifiuto del diritto, pretendendo di decidere sulle controversie “in base alle leggi divine non mai scritte ma immutabili”. Alla fine è stato dispensato per “comportamento obiettivamente contrastante con la stessa possibilità di esercizio della funzione giurisdizionale, perché in contrasto voluto e dichiarato con fondamentali principi costituzionali e con il giuramento di osservanza delle leggi dello stato”. Ma prima c’è voluta, raccontano Fantacchiotti e Fiandanese, “una discussione che ha evidenziato vivaci divergenze di opinione” tra i membri della sezione disciplinare. Divergenze su cosa? Boh. E datata invece 2004 la vicenda del pubblico ministero che, in due ricorsi presentati alla corte di cassazione contro atti del tribunale del riesame, ricorreva a “vere e proprie espressioni offensive, irridenti, pesantemente insinuanti nei confronti di provvedimenti giurisdizionali e dei magistrati giudicanti”. Gli uomini della disciplinare si sono rigirati a lungo il carteggio per le mani, non sapendo bene che pesci pigliare. Lelemento oggettivo dell’illecito, sono stati costretti a riconoscere, c’era tutto. Poi, però, hanno avuto un’autentica alzata di ingegno. TI fatto, si sono risolti a sentenziare, è che la scrittura, da parte del collega, degli atti di impugnazione era avvenuta in presenza di una grave situazione di stress, causata, e ti pareva, da un prolungato e intenso impegno lavorati- vo, che aveva prodotto un momentaneo ed episodico abbassamento della soglia di attenzione e autocontrollo. Il passo più impegnativo era fatto. Il successivo è venuto in scioltezza. L’imputato è stato cioè assolto “perché il fatto non costituisce illecito disciplinare [...1 in quanto l’incolpato non ebbe piena consapevolezza e volontà di utilizzare le espressioni indicate nel capo d’incolpazione.” Non sapeva, insomma, quello che diceva. Un deficiente a pannelli solari. Uno al quale non affidare un chiosco di bibite, Altro che la toga di pubblico ministero. Ma per la disciplinare la coerenza è un optional. Se è l’unico modo per risparmiare una condanna al collega, allora va bene pure dargli dello scemo. Senza però trarne le logiche conseguenze. Ancora più incredibile è il caso di I.A.B., sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Ancona. 1129 gennaio del 2007 il magistrato è finito davanti alla disciplinare, guidata nell’occasione dal vicepresidente del Csm. Così, Mancino, insieme agli insigni colleghi Saponara, Pepino, Romano, Fresa e Cesqui, s’è trovato nell’imbarazzo di dover decidere su una storia che sembra tratta di peso da un poliziesco di quarta categoria. E che invece è sciaguratamente vera. Anche se il linguaggio è involuto e la punteggiatura tradisce più di un’incertezza, vale la pena prendere fiato e leggere per intero il cosiddetto capo d’incolpazione, per capire cosa diavolo può combinare un pubblico ministero in Italia. Dunque: “Il magistrato nell’esercizio delle funzioni giudiziarie sopra indicate nel corso delle indagini preliminari di un procedimento per il reato di omicidio volontario disponeva, con ignoranza o negligenza ines cusabile in violazione del divieto di adozione di misure limitative della libertà personale se non nei casi e modi previsti dalla legge, che tale EM., quale persona informata dei fatti, venisse sottoposto a una seduta ipnotica al fine di recuperare ricordi rimossi, in tal modo ponendo in essere metodiche idonee a pregiudicare la libertà di autodeterminazione della persona”. Il procuratore generale, rappresentato dal suo sostituto, ES., chiedeva l’applicazione della censura, cioè una sgridata. La difesa, ovviamente, l’assoluzione. Dalle sette pagine della straordinaria sentenza si capisce che EM,, cui era toccato in sorte di ritrovare il cadavere dell’amico M.B., aveva rimosso
ogni dettaglio sulla scena del delitto a seguito “del shock” (è scritto proprio così) subìto. E che, senza il provvidenziale aiuto del mancato supertestimone, le indagini erano finite nel più classico dei vicoli ciechi. A quel punto il sostituto procuratore, dimostrando di saperne una più del capitano Venturi e dei suoi Ris, aveva avuto l’ideona di affidarsi allo specialista, che peraltro non era riuscito a cavare un ragno dal buco (“il soggetto interessato ha sempre mantenuto pienamente la capacità di intendere, com’è deducibile [...] dalle dichiarazioni di non ricordare alcuni particolari nonostante le sollecitazioni dell’ipnotista”). Si legge ancora nella sentenza: “Dalla memoria difensiva emerge, tra l’altro, che la consulenza, resa opportuna dalla situazione di staflo delle indagini, non mirava a venire in possesso di materiale probatono da utilizzare nell’eventuale giudizio, bensì a verificare la possibilità della persona informata di ricordare e orientare il prosieguo dell’attività di indagine”. L’ipnotista era insomma la penultima chance di capirci qualcosa, poi non sarebbe rimasta che la cartomante.
Non è dato sapere, perché l’estensore non l’ha riportato, se Mancino e compagnia sfogliando il faldone ridessero a crepapelle, magari anche solo per non piangere. Fatto sta che, alla fine, sono arrivati all’ardua sentenza. Che si colloca esattamente a metà strada fra la richiesta dell’accusa e quella della difesa. “Va affermata la responsabilità disciplinare dell’incolpata [...] in una valutazione complessiva di quanto emerso appare congrua la sanzione dell’ammonimento.” In Nome del Popolo Italiano. Tutto maiuscolo, come lo scrivono loro.
Con una semplice censura se l’è cavata, nel 1998, A.B., sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia di Roma, che pure s’era cacciato in un guaio grosso come una casa. “Nell’ambito delle indagini preliminari concernenti il sequestro di persona del commerciante G.G., nel corso delle quali veniva sottoposto alla custodia cautelare in carcere (1119 aprile 1993) T.S., a seguito di riconoscimento fotografico operato dal sequestrato, che lo aveva indicato come uno dei compartecipi al reato, ometteva di far conoscere al tribunale, in sede di riesame dell’istanza di scarcerazione presentata dal S. (udienza del 26 maggio 1993), le dichiarazioni precedentemente rese a esso dottor B., nelle rispettive date del 14, 15 e 20 maggio 1993, dal coindagato V.N. il quale, ammettendo la propria partecipazione al sequestro de quo, affermava l’estraneità ai fatti del T.S. Quest’ultimo soltanto in data 29 gennaio 1994 veniva scarcerato su richiesta del dottor B., contestualmente all’arresto degli autori del sequestro.” B. aveva dunque le prove certe che l’incarcerato non c’azzeccava niente, come direbbe un suo più noto ex collega, e che stava in galera per sbaglio. Però se l’è tenute per sé. Con il giudice, acqua in bocca. E quello in gabbia, che porti pazienza. Gli stessi membri della disciplinare se ne sono fatti una ragione: si trattava di un po’ più che una semplice marachella. Forse qualcuno di loro ricordava perfino di aver sfogliato distrattamente, tanti anni prima, il codice deontologico. Proprio in quelle pagine dove dice che “11 magistrato svolge le sue funzioni con diligenza e operosità” e “agisce con il massimo scrupolo, soprattutto quando sia in questione la libertà e la reputazione delle persone” (Pasquale Gianniti, Princzi di deontologia giudiziaria). Così, hanno impugnato carta e penna: “B. ha delimitato l’orizzonte conoscitivo dell’organo giurisdizionale competente alla decisione sulla libertà personale dei 5., condizionando, tra l’altro, la decisione del tribunale del riesame, formatasi su un quadro probatorio parziale, con la gravissima conseguenza di protrarre di ulteriori Otto mesi la restrizione della libertà personale del 5. stesso”. Conclusioni: “Nonostante la gravità dei fatti, la sezione, prendendo atto dell’impegno profuso dal magistrato nell’attività professionale, ritiene di dover irrogare la sanzione della sola censura”. E meno male che era “grave”. Ma non è finita: perché la cassazione, ravvisando un errore formale, aveva respinto la sentenza al mittente, che ne aveva prontamente approfittato per assolvere del tutto l’incolpato. (A titolo di raffronto, negli Stati Uniti per un caso analogo il pubblico ministero è stato licenziato in tronco e il giudice ha proposto per lui un procedimento penale.) Peggio è andata a EM., giudice del Tribunale di Lecce, ma prima ancora orgogliosissimo papà. La sezione disciplinare gli ha tolto sei mesi di anzianità, così infliggendo un piccolo stop alla sua carriera. Prima di intenerirsi a sproposito conviene però ficcare il naso nelle carte del suo procedimento. Perché neanche facendo un doppio salto mortale all’indietro il Csm avrebbe potuto assolverlo del tutto, tante ne aveva fatte. “Dopo aver sollecitato telefonicamente l’intervento del professor F. — preside del liceo scientifico di Brindisi — in sede di consiglio di classe, in favore del figlio E, essendo venuto a conoscenza dell’orientamento di detto consiglio di promuovere il ragazzo non già con la media dell’otto, rispondente alle sue aspettative, sebbene con quella del sette, rivolgeva al preside, nella mattinata del 18 giugno 1996 formale richiesta di rilascio, ai sensi della legge numero 240 del 1990, di copiosa documentazione relativa all’attività didattica della classe frequentata dal figlio, compresa copia del verbale del consiglio di classe concernente lo scrutinio finale, con particolare riguardo alle determinazioni dei singoli voti attribuiti agli alunni.”
Ma non è finita qui, perché i figli, si sa, so’ piezz ‘e core. E quel sette sulla pagella del pargolo a F.M. non andava proprio giù. Così, ha senz’altro deciso di passare alle maniere forti. “Avuta risposta che per il rilascio della copia di detto verbale era necessario attendere la pubblicazione degli scrutini fissata per il giorno 20, il dottor M. il pomeriggio di quello stesso 18 contattava telefonicamente il dottor P.A., vicequestore di Brindisi, invitandolo a raggiungerlo immediatamente in piazza Apuleia, davanti alla sede dell’istituto scolastico. Al dottor A., giunto subito dopo sul posto a bordo di una volante, il dottor M. riferiva che nel liceo stavano facendo sicuramente degli imbrogli, consistenti nella manipolazione degli scrutini già in precedenza verbalizzati e riguardanti anche il suo figliuolo, alunno del primo anno, manifestandogli altresì il dubbio che il preside avesse convocato appositamente il consiglio di classe per procedere a detta manipolazione.” Il povero poliziotto, invece di mandarlo a quel paese, gli ha dato retta. O almeno ha fatto finta. Così, la faccenda è andata ancora oltre. “Il vicequestore, pertanto, si recava all’interno dell’istituto facendo presente al preside di essere stato inviato dal dottor M. e di dover verificare se vi fosse stata o meno manipolazione dei voti e, soltanto dopo aver avuto assicurazione, mediante esibizione dei relativi registri, che nessuna manipolazione vi era stata, si allontanava dall’istituto.” Neanche a questo punto il magistrato ha mollato la presa. Dopo aver evidentemente scartato l’ipotesi di inviare i parà della folgore o gli agenti della forestale in assetto da guerra, ha chiesto almeno la testa della professoressa di geografia, rea di non amare affatto la materia e di trasmettere la propria idiosincrasia ai giovani virgulti. Ma il giudice non aveva messo nel conto un fatto decisivo. Non essendo il teatro delle sue gesta esattamente New York, il parapiglia dell’irruzione nel liceo (“il vicequestore era supportato da un numero imprecisato di poliziotti,” ha testimoniato sgomento il preside) non era passato inosservato. La Cgil scuola non aveva fatto mancare il suo contributo sotto forma di un indignato comunicato. E la stampa locale, evidentemente a corto di notizie più succulente, s’era sentita invitata a nozze. Il pretore boccia il preside, aveva titolato un quotidiano, dando voce nell’occhiello a M.: “Mio figlio meritava voti più alti in pagella”. Un altro era addirittura uscito con delle locandine: “Il papà-pretore bacchetta il preside”. E giù: “Polemiche allo scientifico Fermi: durante gli scrutini arriva anche la Polizia. Il giudice M., scontento per la pagella del figlio, ottiene i verbali dei consigli di classe e attacca gli insegnanti”. Ed è proprio la troppa pubblicità ad aver fatto per una volta imbizzarrire la placida sezione disciplinare. “Si tratta di una condotta oggettivamente grave, che ha suscitato vasta eco nell’ambiente, ha provocato il risentito e fermo intervento di un’associazione sindacale della scuola ed è stata ampiamente ripresa dalla stampa locale, con notazioni assai poco lusinghiere per il magistrato. Una condotta siff atta ha sensibilmente incrinato il prestigio dell’ordine giudiziario e la credibffità del dottor M. medesimo.” Da qui la conclusione, con la condanna: “Nell’affermare la responsabilità disciplinare del dottor M. in ordine alle plurime condotte descritte nel capo d’incolpazione, la sezione osserva che il suo operato è stato all’esterno univocamente percepito, ed è dunque apparso, come espressione di una strumentalizzazione dello status di magistrato che, pur non attingendo la soglia dell’illecito penale, appare, sotto il profilo disciplinare, connotata da indubbia gravità. La condotta dell’incolpato ha infatti ingenerato nell’ambiente locale il convincimento che sia consentito a un soggetto di perseguire interessi di natura privata spendendo le prerogative e l’autorevolezza che gli derivano dall’essere magistrato, così da ottenere risultati normalmente preclusi, invece, a quanti quello status non possono spendere”. Ma va?
Chi la toga l’aveva spesa davvero senza riguardo è M.A.P., all’epoca del procedimento sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Oristano e bersaglio addirittura di un doppio capo di incolpazione. Primo: “Quale pretore di Macomer, nel chiedere al sindaco di identificare un’area per la costruzione del nuovo edificio perlapretura, segnalava, connotadel29 aprile 1981, atitolo orientativo, le aree inedificate che esistono tra via Sardegna e via dell’Eguaglianza e successivamente, avendo appreso che il comune avrebbe prescelto un’area diversa, scriveva al sindaco e a tutti i consiglieri la nota del 28 maggio 1981, con la quale manifestava dissenso rispetto a tale scelta, concludendo testualmente: la sottoscritta desidera pertanto sapere se agli atti di codesto comune consti qualche cosa in relazione al realizzando parcheggio o alla realizzanda lottizzazione, sia per esimersi da ogni possibile responsabilità, o corresponsabilità in ordine a eventuali manovre a favore o sfavore di questo o quello, sia onde poter valutare, sotto il profilo della correttezza ed eventualmente altri e più rilevanti profili, il comportamento di codesto Comune”. Così facendo, si legge nella sentenza, il magistrato interferiva “in scelte discrezionali dei pubblici amministratori”. Secondo rilievo: “M.A.P. scriveva una lettera personale al sindaco con la quale chiedeva che il medesimo attivasse i vigili urbani per aiutarla a reperire una casa in locazione, della quale indicava anche le caratteristiche, così determinando da parte dei vigili accertamenti in suo favore, con evidente utilizzazione di pubblici uffici e funzionari per esigenze personali”.
Che il disinvolto sostituto si fosse spinto al di là dei limiti sarebbe stato chiaro anche a un bambino. Ma non al procuratore generale. Il quale, in un colpo solo, ne ha chiesto il proscioglimento per tutti e due i fatti e senza neanche arrivare al dibattimento. Per la gioia della sezione disciplinare, che ha subito sottoscritto il tutto. La lettura della vicenda data nelle motivazioni è un piccolo capolavoro. Non si è trattato, si spiega, di ingerenza da parte di M.A.P. Quando mai. Il sostituto ha semmai offerto un aiutino, come si dice nei telequiz. “[Il magistrato] ha cercato di far superare le incertezze e i contrasti - fonti di reciproche denunce ed esposti dei cittadini - sulla localizzazione della pretura.” I consiglieri comunali hanno apprezzato, al punto di risolvere pure il problema abitativo
del sostituto. “Tali interventi peraltro non vennero percepiti dagli amministratori dell’epoca come abusivi e prevaricatori, tanto che gli stessi portarono a compimento l’opera pubblica senza alcuna doglianza nei confronti del pretore, cui, anzi, concessero a titolo oneroso l’ultimo piano del nuovo edificio come abitazione.” In questo quadro non può che suonare beffarda la spiegazione sulla scelta dell’alloggio da parte dell’intraprendente toga sarda: “Le ragioni che l’avevano indotta a trasferirsi nella sede della pretura erano ravvisabili nell’esigenza di evitare di mantenere rapporti con privati cittadini e nella preferenza di un rapporto con un ente pubblico”. Buona la seconda, a occhio e croce. E riuscito a schivare il giudizio anche il procuratore della repubblica presso il Tribunale di Torre Annunziata, A.O., quello degli 85.938 procedimenti non registrati e molto altro. A.O. non s’è inventato difese acrobatiche e piuttosto improbabili. Si è limitato invece a documentare quanto era già del tutto evidente. Ossia, il caos negli uffici, sommersi dal lavoro ereditato e trasformati in una specie di cantiere edile. Tra impiegati, operai e pubblico, ha raccontato, secondo i pompieri di Napoli l’edificio rischiava addirittura di crollare. S’è dipinto, insomma, come una specie di Indiana Jones, che era già tanto se in quel casino non ci aveva lasciato la pelle. Figurarsi se poteva pure tenere in ordine le carte. il 24 febbraio 1999 il procuratore generale ha chiesto di non rinviano neanche al dibattimento, La sezione disciplinare non se l’è fatto ripetere due volte. E venti giorni dopo ha addirittura prosciolto un suo collega che, nell’arco di quattro anni, aveva depositato 209 sentenze civili (anche di lavoro) con ritardi dai sei mesi a oltre un anno, che “non possono essere qualificati come consistenti E...] non appaiono infatti superati i limiti oggettivi di ragionevolezza”. E chissà allora quali sono questi limiti. E una sconcertante archiviazione ha strappato, nel 2008, il procuratore di Genova, EL. Era successo che il suo sostituto, F.P., aveva accusato il medico F.H. di detenzione di farmaci a base di stupefacenti e ne aveva chiesto il rinvio a giudizio. L. non era d’accordo con lui. Così, gli aveva semplicemente fregato il posto: nel giorno fissato per l’udienza preliminare, con un colpo di teatro s’era sostituito al collega, chiedendo e ottenendo dal giudice il proscioglimento dell’imputato. E prendendosi pure la briga di spiegare ai giornalisti che l’aveva fatto perché “si vergognava dell’inchiesta del suo sostituto”. L’eco della vicenda era giunta fino alle ovattate stanze del Csm. I consiglieri Pepino e Fresa avevano pensato che il comportamento del procuratore non era esattamente ineccepibile. E sollecitato così l’apertura di un dossier. TI Csm era stato severo con L.: “La collaborazione che deve animare i rapporti tra procuratore, aggiunti e sostituti deve essere improntata non solo al rigoroso rispetto delle regole, ma anche ai fondamentali canoni di correttezza e pieno rispetto per tutte le funzioni,” aveva stabilito perentorio. Quindi sanzione. No: quindi archiviazione. Che la logica non sia il faro della disciplinare, del resto, l’ha definitivamente sancito, all’inizio del 2008, la vicenda del pubblico ministero di Catanzaro, Luigi De Magistris, protagonista di una discussa e alquanto ingarbugliata inchiesta nel cui merito evitiamo accuratamente di addentrarci, e in aspettativa dal 18 marzo del 2009, perché candidato alle elezioni europee nell’Italia dei Valori dell’ex collega Antonio Di Pietro. Il Csm l’aveva giudicato colpevole, infliggendogli la censura e la sanzione accessoria del trasferimento di sede e di funzioni. Il procuratore generale della cassazione non aveva lesinato i giudizi più tranchant: “Un modo errato e distorto di intendere il proprio mestiere, ispirandosi a un’ottica missionaria E...] manca nella condotta dell’incolpato il principio costituzionale per il quale il giudi.. ce è soggetto solo alla legge [...] non è questo il modello di magistrato che la Costituzione e l’ordinamento prevedono e di cui necessita la democrazia ordinaria [...1 comportamenti sleali, incuranza rispetto ai termini procedurali, adozione di provvedimenti al di fuori del codice”. E il ritratto di uno squilibrato. Perciò spedito di gran carriera a fare il giudice del riesame a Napoli.

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