IL CORSIVACCIO: GIUSTIZIA PAZZA E SENTENZE DA MANICOMIO, I CASI
Data: Lunedì, 20 aprile @ 00:08:57 CEST
Argomento: Cittadini e Giustizia




IL CORSIVACCIO
di Ferdinando Terlizzi




La mancanza di querela causa di estinzione del reato?


Si tratta di un furto di oggetti lasciati in auto dal proprietario che era sceso senza chiudere la portiera a chiave. P.M. e Giudice, accertato che il ladro non aveva compiuto alcun atto di violenza sull’auto e che gli oggetti in essa contenuti non possono considerarsi cose esposte alla pubblica fede, correttamente ritenevano il reato contestato da qualificare come furto semplice ai sensi dell’art. 624 c.p., ma, a questo punto, ecco la sorpresa:
“La mancanza di ogni idonea querela in ordine al reato di furto semplice determina, pertanto, conformemente alle conclusioni del medesimo p.m, la declaratoria di non doversi procedere in ordine al reato, essendo lo stesso estinto per difetto di querela.

L’idea che senza querela non avrebbe potuto essere mai iniziata l’azione penale per questo reato non ha sfiorato le menti di questi magistrati?

Esuberanza giovanile

Un minorenne deve rispondere dei reati di violenza privata e lesioni perché, tappando la bocca e strattonando un’operatrice scolastica, le impediva di chiamare e raggiungere un professore. L’operatrice vittima della violenza aveva subito anche lesioni personali. Il GUP collegiale minorile dichiara non doversi procedere nei confronti dell’imputato per immaturità sulla base di questa motivazione: L’imputato “ha agito in un contesto emotivamente coinvolgente senza rendersi conto dell’antigiuridicità del fatto e non riuscendo, attesa la giovane età, a calibrare la propria forza fisica”. Avviso agli operatori scolastici: attenti ai ragazzoni tutti muscoli; sono immaturi e non sanno calibrare la loro forza fisica!!!

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Ogni colpo una tacca.

Secondo questo giudice l’accoltellatore del rivale risponde di tanti reati di lesioni volontarie aggravate per quanti colpi abbia sferrato. La sentenza riguarda un soggetto imputato originariamente di tentato omicidio del rivale, al quale aveva inferto diverse coltellate. All’esito delle indagini preliminari, il Pubblico Ministero, sulla base della consulenza medica che aveva ritenuto tutte le ferite superficiali ed in punti non vitali del corpo, riformula l’imputazione in quella di lesioni volontarie aggravate ed accetta la proposta di patteggiamento offerto dall’imputato. Nella motivazione della sentenza, tuttavia, il giudice ritiene di dovere precisare che la pena concordato non viene determinata per l’unico reato così come contestato, ma che, “benchè non espressamente indicata, deve ritenersi altresì contestata la pluralità delle lesioni costituenti esse stesse singole ipotesi di reato che dunque vanno riunite nel vincolo della continuazione, essendo evidente l’unicità del disegno criminoso. Pena equa, tenuto conto della diminuzione per il rito prescelto, stimasi quella di anni 1 e mesi 4 di reclusione, pena che deve comunque, al di là del calcolo come proposto dalle parti, ritenersi corretta in relazione ai limiti edittali (pena base a I anno e mesi 10 di reclusione + 81 cpv. = a. 2 - 444 c.p.p.)”

Pensate se una ferita fosse stata mortale e le altre superficiali, forse avremmo avuto una sentenza di condanna per i due reati di omicidio e lesioni personali uniti dalla continuazione.

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Il numero 69 non piace alle giudicesse


Sempre più spesso si leggono nelle sentenze redatte da giovani donne giudici calcoli della pena stravaganti, dovuti quasi certamente all’ignoranza assoluta dell’art. 69 C.P. e della pluriennale interpretazione di questa norma da parte della Cassazione. Cito, a titolo di esempio due sentenze, redatte dalla stessa giudice a distanza di sei anni l’una dall’altra, in cui viene esposto lo stesso ragionamento e commesso lo stesso errore, stabilendo una pena che sostanzialmente potrebbe essere quella giusta, ma che, per la mancanza delle nozioni sul bilanciamento tra aggravanti ed attenuanti, giunge a conclusioni erronee. Si tratta di due sentenze entrambe per furto pluriaggravato nelle quali viene affermata la responsabilità dei rispettivi imputati. La giudice, leggendo l’art. 625 c.p. così ragiona nella prima: “pena base anni tre di reclusione + multa, diminuita in virtù del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche da ritenere prevalenti sulle contestate aggravanti mesi otto di reclusione + multa”. Nella seconda: “pena base anni tre di reclusione + multa, diminuita in virtù del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti sino alla pena di mesi sei di reclusione + multa”.
Si tratta, sia nel caso di prevalenza che in quello di equivalenza delle concesse attenuanti generiche, di un evidente errore per eccessiva diminuzione di pena ex art. 62 bis c.p. visto che vuol partire da tre anni di pena base. Se, invece, la giudice avesse letto l’art. 69 c.p., avrebbe dovuto prima di tutto verificare il bilanciamento tra le aggravanti e le attenuanti e poi, visto che riteneva prevalenti o equivalenti queste ultime, determinare la pena base, nel primo caso, magari in misura di un solo anno, sulla quale operare la riduzione di un terzo (massimo consentito) e giungere così agli otto mesi voluti, e, nel secondo caso, determinarla direttamente in quella di sei mesi. Sarà che alle brave ragazze l’idea stessa del numero 69 ripugni?

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Nel dubbio del giudice

Tizio risponde del fatto di avere portato in luogo pubblico, insieme ad altre persone, una sbarra di ferro, con la quale sono state provocate fratture alle gambe di un terzo (non risponde invece di concorso in lesioni volontarie aggravate chissà perché). Al dibattimento l’aggredito, che aveva in precedenza riconosciuto in fotografia Tizio come uno di quelli che partecipava all’aggressione, non lo riconosce con certezza.
In questa situazione il giudice, emettendo una sentenza con motivazione contestuale, per prima cosa dichiara: “Dall’espletata istruttoria dibattimentale non sono emersi sufficienti elementi di prova in ordine alla sussistenza del reato contestato all’imputato”. Proseguendo nel ragionamento e dato atto del contrasto tra il positivo riconoscimento fotografico e quello negativo al dibattimento, trae le seguenti conclusioni: “Stante il mancato riconoscimento dell’imputato da parte della persona offesa consegue l’invincibilità del dubbio sulla effettiva partecipazione dell’imputato all’episodio oggetto del processo e la sua conseguente assoluzione ex art. 530 co. 2 c.p.p. dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto. P.Q.M. Visto l’art. 530 co.2 c.p.p. assolve Tizio dal reato ascrittogli in rubrica perché il fatto non sussiste.”.

A me pare che il giudice non aveva solo l’invincibilità del dubbio sulla responsabilità, ma anche quello sulla formula da usare. Insomma, dal dispositivo e dalla prima parte della motivazione pare che il giudice dubitasse anche dell’esistenza della spranga di ferro; ma dall’esposizione dei fatti e dalle conclusioni che ne trae alla fine di essa, sembrerebbe invece che volesse ritenere l’imputato estraneo al fatto, che però riteneva essere davvero accaduto ad opera di terzi.

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La legittima difesa fa sparire anche il fatto.

In questo caso il giudice, trattando un caso di lesioni personali guarite oltre i quaranta giorni, dopo avere accertato che in effetti la parte offesa era uscita malconcia e con varie fratture dalla lite con l’imputato, con articolata motivazione sostiene che l’imputato ha agito in stato di legittima difesa e, dopo avere scritto in motivazione testualmente: Ritiene il Tribunale che la condotta tenuta dall’imputato sia scriminata dalla sussistenza della causa di giustificazione prevista dall’art. 52 c.p., di cui ricorrono i presupposti’, giunge a queste stupefacenti conclusioni: “Le considerazioni sopra svolte conducono ad una dichiarazione di insussistenza del fatto ascritto all’imputato, con conseguente assoluzione dello stesso. P.Q.M. Assolve Tizio dal reato a lui ascritto perché il fatto non sussiste. Giorni 30 per la motivazione .“ (anche questo evidentemente era un caso complesso).

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Della Suprema Corte ce ne infischiamo

Nel lontano 2002 prima il P.M. e poi il giudice avevano accettato il patteggiamento proposto da due imputati alle seguenti condizioni: anni due di reclusione ed € 200,00 di multa ciascuno e sospensione della pena per entrambi. Naturalmente la sentenza era errata perché, dovendosi aggiungere la multa al limite massimo dei due anni dì reclusione, allora non poteva concedersi la sospensione condizionale. Infatti, su ricorso del p.g., la Cassazione annulla tale sentenza senza rinvio spiegando che non poteva concedersi la sospensione condizionale per tali motivi e trasmette gli atti di nuovo allo stesso Tribunale per nuovo giudizio. Nel frattempo gli imputati si erano resi irreperibili, un altro patteggiamento era impossibile, si doveva celebrare un giudizio ordinario. Che scocciatura! Ma i due, PM e giudice, hanno grande fantasia e così decidono che la vecchia proposta di patteggiamento deve rimanere ferma e valida ed, anzi deve essere accolta così come originariamente formulata. E alla Cassazione così il giudice risponde:
“Rilevato che le ragioni che hanno determinato l’annullamento senza rinvio della sentenza emessa da questo giudice (in realtà era un altro giudice dello stesso Tribunale N.d.R.) in data ... 2002 (violazione dell’art. 163 c.p. per superamento del limite di pena previsto dalla norma per concessione del beneficio) sono venute meno a seguito della modifica legislativa introdotta dall’art. 1, I. 2 agosto 2004 n. 205; che, pertanto, entrambi gli imputati - incensurati - possono beneficiare della sospensione condizionale della pena loro inflitta (anni due di reclusione ed € 20000 di multa), stante I’nnalzamento del summenzionato limite ad anni cinque” P.Q.M. applica ai due imputati la pena di anni due di reclusione ed € 200,00 di multa (segue calcolo della pena).... Pena sospesa. Giorni trenta per la motivazione.” (Si sa che una sentenza di patteggiamento è abbastanza complessa). Con un colpo solo questi magistrati (PM e giudice) hanno dimostrato di ignorare quello che aveva scritto la Cassazione; di confondere i limiti del patteggiamento (cosiddetto allargato) con quelli per la sospensione della pena ed, infine, di ignorare che la novella permetteva di sospendere condizionalmente soltanto la pena detentiva nei limiti dei due anni, ma non anche quella pecuniaria, con l’ulteriore conseguenza che, comunque, anche a volere ritenere valida la proposta di patteggiamento a suo tempo formulata, essa non poteva accogliersi perché la legge non permetteva di sospendere tutta la pena patteggiata. Ma che soddisfazione mandare a quel paese quei rimbambiti della Cassazione che li costringono a rimettere mano ad un vecchio processo eliminato! (fonte: Temi nera)

(aprile 2009)





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