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INFORMAZIONE A CASERTA: GIORNALISTA CONFESSA: "TEMO DI ESSERE UCCISO"

In un approfondimento sul difficile mestiere di giornalista in provincia di Caserta, ma il riferimento è soprattutto a Pignataro Maggiore (non a Casal di Principe, per una volta) il giornalista Enzo Palmesano annuncia, senza reticenza, che teme di essere ucciso. Il servizio, che riportiamo di seguito, è stato pubblicato dal quotidiano camapno L'Articolo.


A Pignataro Maggiore, in provincia di Caserta, è molto difficile e pericoloso scrivere degli affari e dei delitti delle potenti e sanguinarie cosche camorristico-mafiose che tengono in pugno il territorio e controllano l’economia e la politica; i giornalisti sono graditi solo se sono intonati con il coro secondo il quale “la camorra non esiste”. Pignataro Maggiore è nota come la “Svizzera dei clan”, luogo di riciclaggio del denaro sporco e del ricovero di latitanti di rango; base per delitti eccellenti e per il traffico internazionale di armi e droga; ma i beni più preziosi per le cosche sono la coltre di falso perbenismo, l’ipocrisia, la radicata omertà. Il silenzio, va da sé, è d’oro. Nella città dell’Agro caleno, non a caso, si sono trovati benissimo a svernare da latitanti Luciano Liggio e Totò Riina, accolti nelle masserie dei boss campani affiliati a Cosa Nostra. A Pignataro Maggiore “la camorra non esiste”, ma solo nel senso che il capoclan Vincenzo Lubrano è un importante mafioso, condannato con sentenza definitiva all’ergastolo per l’omicidio del fratello del giudice Ferdinando Imposimato, Franco, assassinato per fare un macabro favore a Cosa Nostra, su richiesta del cassiere della mafia a Roma, Pippo Calò, capo della “famiglia” di Porta Nuova a Palermo. Consuocero di Vincenzo Lubrano (ora detenuto) era il defunto boss di Marano, Lorenzo Nuvoletta, anch’egli affiliato a Cosa Nostra. La figlia di don Lorenzo, Rosa Nuvoletta, è la vedova di Lello Lubrano (figlio di don Vincenzo), ucciso in un regolamento di conti di stampo camorristico-mafioso, il 14 novembre 2002 a Pignataro Maggiore, dopo un plateale inseguimento lungo le strade della città. Lello Lubrano era anch’egli un influente boss mafioso, destinato alla successione sul trono di don Vincenzo; sono noti i suoi viaggi a Palermo per incontrare Totò Riina. È comunque inesatto dire che a Pignataro Maggiore la camorra non c’è, essendo rappresentata da un nome tristemente noto, quello di Raffaele Ligato, attualmente latitante, inserito nell’elenco dei trenta ricercati più pericolosi d’Italia. Raffaele Ligato è stato condannato all’ergastolo in primo grado quale autore materiale dell’omicidio di Franco Imposimato. Raffaele Ligato è il cognato di Vincenzo Lubrano, avendone sposato la sorella Maria Giuseppa. La “cultura” criminale dei capibastone pignataresi è mafiosa, quindi perfettamente inserita in una strategia che non esclude il delitto politico, l’annientamento di magistrati (o di loro familiari), poliziotti, carabinieri, giornalisti che danno fastidio. Nella storia dei clan locali si è sempre fatto alla maniera dei “corleonesi”, il pericolo è una costante per chi osa fare del giornalismo d’inchiesta o per un corrispondente che osasse sfuggire alla regola non scritta, ma ferramente osservata, che impone di non dare problemi ai boss mafiosi e agli amici degli amici. Per questo i boss ottengono tutto senza neanche il bisogno di minacciare, tale è la capacità intimidatoria. E dal silenzio alla complicità il passo è breve. Una pagina poco conosciuta delle vicende del clan Lubrano (delitto che fa il paio con l’omicidio Imposimato) è quella relativa all’infame assassinio del giornalista “abusivo” del “Mattino”, Giancarlo Siani, colpito innocente e inerme dai killer il 23 settembre 1985. Nel summit dove fu deciso di uccidere il giornalista ebbe un ruolo di primo piano (con Lorenzo ed Angelo Nuvoletta, condannato all’ergastolo) il fratello di Vincenzo Lubrano, Gaetano, morto per malattia nel 1989 a Pesaro mentre era al soggiorno obbligato. Gaetano Lubrano aveva sposato Giuseppina Orlando, cugina dei fratelli Angelo, Ciro e Lorenzo Nuvoletta ed era l’ascoltatissimo “consigliere” della famiglia mafiosa di Marano, rappresentante di Cosa Nostra in Campania. In uno scenario del genere, a lungo sottovalutato finanche dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, a nessuno sfugge che un giornalista può trovare la canna di una pistola ma anche tanto materiale per inchieste di notevole rilevanza. La mafia e la camorra temono l’azione repressiva dello Stato, come è ovvio, ma non meno un giornalismo coraggioso, che con i suoi strumenti di indagine e di approfondimento accende i riflettori dell’opinione pubblica, richiama le autorità a un maggiore impegno, smaschera non solo i boss ma anche le complicità nel mondo della politica e dell’imprenditoria. Nasce proprio da inchieste giornalistiche, ad esempio, l’indagine che portò, il 30 novembre del 2000, allo scioglimento del Consiglio comunale di Pignataro Maggiore per “collegamenti diretti e indiretti” di esponenti politici con la criminalità organizzata; una decisione contestata, in maniera sintomatica, a tutte le latitudini politiche: un complotto, roba da “professionisti dell’antimafia”, così si rovina l’immagine della città. Non ancora è diventata patrimonio comune la consapevolezza che l’immagine (e non solo l’immagine) di una città viene rovinata dalle cosche camorristico-mafiose e non da chi, come i giornalisti, ne denuncia gli affari, i delitti, le connivenze e le coperture politiche. Un altro esempio per sottolineare l’importanza che può avere il giornalismo per il riscatto del Mezzogiorno. Un esempio che si accompagna all’amara considerazione di quanto sia colpevole il giornalista che sceglie il quieto vivere, se non l’aperta vicinanza agli equilibri di potere locali, fin troppo spesso fondati su comitati d’affari politico-mafiosi. A Pignataro Maggiore la questione dei beni confiscati ai clan era sta insabbiata dalla classe politica, che evidentemente non voleva acquisirli al patrimonio del Comune, sia per paura sia per connivenze, a seconda dei casi. Ancora una volta, furono inchieste giornalistiche a portare a conoscenza dell’opinione pubblica l’esistenza dello scottante fascicolo dei beni confiscati dalla magistratura ai clan Lubrano-Nuvoletta e Ligato. E la prefettura intervenne sugli amministratori comunali (chi connivente, chi timoroso). Una battaglia che continua, nonostante le intimidazioni camorristiche abbiano colpito non solo me stesso ma anche i miei incolpevoli familiari. Io temo di essere ucciso, sia detto senza alcuna reticenza. Per una lettera con minacce di morte, pervenutomi per posta nel settembre del 1998 con un proiettile, è in corso un processo al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere a carico di Pietro Ligato (detenuto con l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso), figlio del superlatitante Raffaele Ligato. Ho sentito il dovere, all’inizio del dibattimento, visto che la notizia veniva pubblicata dai giornali, di informare della vicenda anche il più piccolo (13 anni) dei miei tre figli. Mi rispose con una battuta fulminante: “Papà, nella cassetta della posta, meglio trovare un proiettile che una bolletta da pagare”. Mi diede coraggio.

 
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