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LIBRI E RECENSIONI: AL DI LA' DELLA NOTTE, IL NUOVO LAVORO DI RAFFAELE SARDO

Le vittime innocenti della mafia della camorra e della ndrangheta – Gli agenti Domenico Russo ( S. Maria C.V. ) e Nicandro Izzo, ( Calvi Risorta ) il sindacalista Francesco Imposimato ( Maddaloni ) fratello del giudice Ferdinando. Sono questi i delitti dei casertani citati nell’interessante lavoro dello scrittore aversano. Ed inoltre l’uccisione del maresciallo Pasquale Mandato ( delitto di camorra ) del Carcere di S. Maria C.V. – Nel 1983 una scia di sangue innocente. Un anno da dimenticare…


CASERTA, OTTOBRE 2010 (Recensione a cura di Ferdiando Terlizzi) - E’ uno sguardo nella soffitta del tempo, dove ci sono le foto in bianco e nero ora¬mai sbiadite. Sono fotogrammi impressi nella memoria dei familiari delle vittime innocenti che raccontano tragedie mai dimenticate. II libro ricostruisce, attraverso il ricordo di chi quelle foto le conosce bene, storie che devono essere di esempio per le giovani generazioni perche questo non accada mai piu’. Persone che devono essere ricordate non solo per la loro tragica e assurda fine, ma per senso della memoria. Della loro e della nostra memoria. La ricostruzione sistematica delle vicen¬de raccontate ci consegna un ritratto doloroso, che riapre ferite mai chiuse definitivamente e che ha suscitato nei familiari delle vittime sdegno, angoscia, paura, pianto. Ogni vittima qui non e più solo un nome, ma vive anche con la sua storia. Parlare di loro, dei loro affetti, significa rimetterle al posto giusto, nello scrigno delle cose più preziose. Dove meritano di stare, senza distinzione alcuna. L’editore è Tullio Pironti e la prefazione è di Alberto Spampinato con l’introduzione di Paolo Siani ( fratello di Giancarlo il giornalista de “Il Mattino” assassinato dalla camorra). Il libro tratta tre casi che interessano da vicino la nostra provincia. Raffaele Sardo, giornalista, freelance, laureato in Scienze della Comunicazione ha 52 anni e vive e lavora nell’agro aversano e collabora con il quotidiano “La Repubblica” - Come scrittore ha pubblicato varie opere tra le quali ci piace ricordare “La Bestia”, per i tipi di Melampo e con una prefazione di Roberto Saviano. La Foto di copertina è di Simone Florena.

Mimì, carabiniere in terra di mafia - DOMENICO RUSSO - Ucciso il 3 settembre 1982

Quella sera "Mimi" seguiva con la sua Alfetta nelle strade Palermo la A112 del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. nuovo prefetto, insieme alla giovane moglie, Emmanuela Setti Carraro, trentadue anni, aveva deciso di uscire per andare cena. Domenico Russo, "Mimi", faceva d’ autista e da scorta al generale. Era I'unico agente di scorta per chi all'epoca non esisteva un servizio come quello di adesso. E I'auto non era nemmeno blindata. Uscirono da villa Whitaker dov'è ospitata la prefettura, attorno alle ventuno. Dietro di loro si avviarono anche due auto e una moto. Una Bmw, una Fiat 13 e una moto Suzuki. In queste macchine c'erano gli uomini che alcuni minuti dopo li massacreranno a colpi di mitra. Alle ventuno e quindici, in via Isidoro Carini, i sicari si materializzarono. Affiancano l'A 112 con dentro il generale e la moglie Emmanuela Setti Carraro e un'altra auto affianca l'Alfetta guidata da Domenico Russo. I kalashnikov cominciano a crepitare. Emma¬nuela a colpita. L'auto sbanda. Finisce la corsa vicino ad un marciapiede. Per lei e per il generate non c'e pia niente da fare. Anche per Mimi, sventagliate di kalashnikov. Piovono proiettili. Per lui entra in azione la motocicletta che, secondo i pentiti, era guidata da Pino Greco, detto "Scarpuzzedda". La sua auto va a sbattere dietro la A112 con dentro i corpi del generate e della moglie. Mimì scende dall'auto per difendere il prefetto e la gio¬vane consorte. Si rende subito conto che il gruppo di fuoco era troppo numeroso e con la sua pistola d'ordinanza avrebbe potuto fare ben poco. Nonostante ciò, non esitò a sparare e a cercare di fermare i killer. Non resistette a lungo. Il volume di fuoco che misero in campo i mafiosi ebbe subito ragione del povero carabiniere scelto. Ma Mimì non e morto, e ferito gravemente. Tra¬sportato in ospedale, i medici lo dichiareranno clinicamente morto. Morirà dopo tredici giorni di agonia. Qualche ora dopo, a Santa Maria Capua Vetere, quando la notizia si diffonderà, toccherà ad un carabiniere, un collega di Mimì, avvisare i suoi parenti. Sono appena passate le dieci di sera, quando un militare dell'arma suona al citofono in via dei Gladiatori, vicino all'an¬fiteatro romano. “Buonasera. Cerco i parenti di Domenico Russo”, dice con voce tremante e imbarazzata. “Prego, dite, dite pure”, risponde Secondino Russo, I'anziano papà di Mimi, mentre apre la porta per far entrare il giovane che indossa una divisa a lui familiare e cara. Al suo fianco la moglie Maria e un figlio, Giuseppe. “Ma è successo qualcosa a Mimi?”, chiede la mamma, presagendo che chi aveva bussato fosse un messaggero di sventure. “Sapete”, riprende imbarazzato it carabiniere, “c'e stato un conflitto a fuoco a Palermo. Domenico a stato ferito e si trova in ospedale”. E mentre ancora il carabiniere cercava di minimizzare l'accaduto, arrivò Teresa, la sorella primogenita di Mimì, che invece aveva sentito la notizia al telegiornale. Mimì aveva trentadue anni. Lavorava in Prefettura a Palermo già da qualche anno. Era nato a Santa Maria Capua Vetere il 27 dicembre del 1950. Era sposato con una ragazza siciliana, Fina, da cui aveva avuto due figli, Dino e Toni. Era orgoglioso di sua moglie e si notò sin da quando, ancora giovane carabiniere a Palermo, portò a casa la fidanzata siciliana per farla conoscere ai parenti. «L'ho conosciuto Domenico Russo» , racconta Gennaro Nuvoletta, carabiniere, fratello di un altro giovane carabiniere, Salvatore Nuvoletta, ucciso dalla camorra a Marano il 2 luglio del 1982. «Io facevo già da autista e da scorta al generale Dalla Chiesa da quattro anni. Quando venne nominato prefetto di Palermo il 30 aprile, mi portò con sè. Domenico Russo, bravis¬simo ragazzo, lavorava alla Prefettura di Palermo. Facemmo subito amicizia, perche lui era campano come me. Il prefetto lo scelse come autista e come agente di scorta. II generale mi chiese di istruirlo per una ventina di giorni perche conoscevo già le sue abitudini e i suoi metodi di lavoro. Avevamo in dota¬zione una Croma blindata col telefono a bordo che portai a Palermo i primi di maggio di quell'anno. II ragazzo di Santa Maria Capua Vetere si dimostrò subito all'altezza. Poi tornai a Marano perche il 4 luglio dovevo sposarmi. Il prefetto si doveva sposare il 12 luglio e mi propose di andare a vivere a Palermo. Mi avrebbe fatto alloggiare in un appartamento a Villa Pajno dove alloggiava insieme alla moglie. "Mia moglie lì non cono¬sce nessuno e nemmeno tua moglie. Cosi le facciamo stare insieme e si fanno compagnia a vicenda", mi aveva detto. II generale Dalla Chiesa, intanto, mi teneva informato delle sue attività. Continuava a girare per le scuole. "E dai ragazzi che bisogna cominciare se vogliamo cambiare qualcosa, caro Gen¬naro", mi ripeteva continuamente. "Io lo faccio, ma gli altri?". La situazione, pero, precipitò. Il 2 luglio la camorra ammazzo mio fratello. Rimandai il matrimonio. II generale si sposò e riparti per Palermo. Il 3 settembre 1'agguato e la tragica fine per mano dei mafiosi in cui marì anche Domenico Russo, mise fine a tutto” .

“Io sono la prima”, dice Teresa Russo, la sorella di Mimi, “nonostante siano passati tanti anni dalla morte di mio fratello, non riesco a parlarne con serenità. Ogni volta che parlo di Mimi o mi ricordo dell'accaduto, mi sento male. Mi fa sempre lo stesso effetto, non ci posso fare niente”. E mentre parla scoppia a piangere. Anche 1'altro fratello Giuseppe non riesce a parlare di Domenico: ”Che volete da me? E passato tanto tempo. Lasciateci stare”. Qualche anno fa i fratelli di Mimi si sono incontrati a Capua con il figlio del generale Dalla Chiesa, Nando. Un incontro davvero commovente. Si sono detti solo poche parole. E’ bastato poco per dirsi con gli sguardi e con qualche lacrima tutto il dolore che si portavano dentro da quel 3 settembre del 198. La moglie di Mimi e i due figli maschi vivono ancora a Palermo. Sono stati aiutati dallo Stato. Lei lavorava nei grandi Fu assunta in Prefettura a Palermo come impiegata civile. Dino e Toni, dopo il diploma, sono stati assunti alla Regione Sicilia. Il Comune di Santa Maria Capua Vetere ha intitolato una strada a Domenico Russo. Proprio la via dove abitava da ragazzo. Al giovane carabiniere ucciso con i1 prefetto di Palermo e la moglie a stata anche assegnata la medaglia d'oro al valor civile con la seguente motivazione: “Di scorta automontata per il servizio di sicurezza ad emi¬nente personalità, assolveva al proprio compito con sprezzo del pericolo e profonda abnegazione. Proditoriamente fatto segno a numerosi colpi d'arma da fuoco esplosi a distanza ravvicinata da parte di alcuni appartenenti a cosche mafiose, tentava di rea¬gire al fuoco degli aggressori nell'estremo eroico tentativo di fronteggiare i criminali, immolando cosi la vita nell'adempi¬mento del dovere. Amava la sua terra – Francesco Imposimato Ucciso 1'11 ottobre 1983 L'agguato avvenne di martedì, un giorno lavorativo come tanti altri. Franco e Maria Luisa stavano uscendo dalla fabbrica. Il tempo di timbrare it cartellino e di arrivare all'auto, una Ford Escort verde, e poi si sarebbero diretti verso la scuola dei propri figli. Erano oramai le diciassette e trenta e i bambini stavano già aspettando. Dopo aver percorso pochi metri dall'uscita, arrivarono in via Campolongo, all'incrocio tra via Sauda e via Mon¬tevergine. C'era un'auto ferma quasi nella curva. Franco, nel fare la manovra di sorpasso, rallentò. La macchina, una Fiat Ritmo, non aveva alcuna intenzione di muoversi da lì. Fu a quel punto che si materializzarono due uomini. Arrivarono quasi di corsa. Uno si avvicinò a Franco, dal lato del guidatore e l'altro a fianco della moglie. Impugnavano una 357 Magnum e una 38 Special. Franco Imposimato venne colpito da undici colpi di pistola. Morì quasi subito “per shock emorragico e trauma¬tico”, fu accertato. Maria Luisa, invece, fu colpita al petto. Il killer le sparo due colpi diretti al torace. Uno le bucò tutti e due i polmoni. Fuoriuscirono dalla schiena fratturandole una costola e sfiorandole il cuore di qualche centimetro. L'altro, invece, rimase conficcato nel braccio sinistro. Nonostante il dolore forte, la moglie di Franco riuscì ad aprire lo sportello. Fece qualche passo, ma cadde a terra svenuta. Si salvò dopo essere stata ricoverata in ospedale per più di un mese in gravi condizioni. Franco Imposimato, tesserato del Partito comunista, dipin¬geva quadri. Era un artista. Gli piaceva dipingerli in bianco e nero, soprattutto con inchiostro di china. Era molto impegnato a difendere 1'ambiente, aveva il solo torto di essere il fratello di Ferdinando, giudice a Roma. Il magistrato era stato preso di mira della mafia siciliana perche stava con¬ducendo indagini sulla morte di Domenico Balducci, un espo¬nente della banda della Magliana che faceva prestiti usurai per conto di Pippo Calò, il "Papa" di Cosa Nostra, allora a capo della famiglia mafiosa nel quartiere palermitano di Porta Nuova. Balducci operava negli ambienti dell'alta borghesia romana dove bazzicavano anche esponenti dei servizi segreti. Ferdinando Imposimato aveva scoperto che l'usuraio romano era stato ucciso per uno sgarro nei confronti di Calò. Le inda¬gini stavano arrivando a1 cuore di Cosa Nostra. E questo la mafia non lo poteva permettere. Non riuscirono a fermare it magistrato e allora scelsero la vendetta trasversale: «Ammaz¬zate il fratello”, ordinò il "Papa". Di quell'agguato per anni non si a saputo niente. Non si conoscevano nè i mandanti, nè gli esecutori. Anzi ci furono diversi tentativi di depistaggio. Si disse di tutto: che erano state le Brigate Rosse. Poi si cominciò a seguire la pista della crimi¬nalità, ma non c'erano prove per collegarla ad un filone d'in¬chiesta. Lo stesso Ferdinando Imposimato non s'era ancora reso conto delle implicazioni nate dalle sue indagini e cosa c'era di così scottante nella pentola che stava scoperchiando. Il primo a parlare dell’assassinio di Franco Imposimato fu il pentito del clan dei Casalesi Carmine Schiavone. Confermò che i due killer di cui aveva parlato Maria Luisa Rossi erano Raffaele Ligato e Antonio Abbate, appartenenti al clan Lubrano-Nuvoletta di Pignataro Maggiore. Un clan affiliato a Cosa nostra siciliana e fedele alleato dei Corleonesi di Totò Riina. Il processo per 1'assassinio di Franco Imposimato e il feri¬mento della moglie, Maria Luisa Rossi, si a concluso in Cassazione con la condanna all'ergastolo dei mandanti (Pippo Cale e Vincenzo Lubrano, morto nel 2007) e degli esecutori materiali (Antonio Abbate e Raffaele Ligato). Uno dei mandanti, Lorenzo Nuvoletta, a morto prima che venissero riaperte le indagini. Franco Imposimato il 19 dicembre di quel 1983 avrebbe com¬piuto quarantaquattro anni.

Ammazzato tra la gente - NICANDRO IZZO - Ucciso il 31 gennaio 1983

”C'e il corpo di un uomo a terra, correte!”. La telefonata concitata di una persona che chiama i vigili urbani arrivò poco dopo le nove del mattino. Era di un "mercataro", di uno di quelli che vendono la loro mercanzia nelle fiere settimanali dei paesi della regione. Fu lui ad accorgersi del corpo senza vita di Nican¬dro Izzo, agente di custodia, in servizio a Napoli, presso il car¬cere di Poggioreale. Era la mattina del 31 gennaio del 1983, un lunedì. Il corpo di Izzo fu rinvenuto tra le bancarelle del mercato che si svolge due volte a settimana (il lunedì e il venerdì) a poca distanza dall'uscita del penitenziario di Poggioreale, poco dopo 1'incrocio di corso Malta. Era il suo ultimo giorno di lavoro nel carcere napoletano. Dal primo febbraio avrebbe dovuto prendere servizio nel carcere di Rebibbia. Nicandro Izzo, trentotto anni, era a Napoli dal '76 col grado di appuntato e da due anni lavo¬rava alla "accettazione pacchi" di Poggioreale. Un posto molto delicato che i detenuti dei clan di camorra tenevano sotto pres¬sione, perche era da lì che potevano essere introdotte armi per combattere la "guerra" in corso nelle carceri tra bande rivali. La dinamica dell'agguato non è chiara. Gli inquirenti cercano di ricostruirla dagli elementi in loro possesso. Nicandro Izzo alle otto e quarantacinque, dopo aver salutato i colleghi, stava lasciando il penitenziario e in abiti borghesi si era incamminato per via Poggioreale per poi raggiungere Piazza Nazionale. Doveva prendere 1'autobus e partire alla volta di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, dove risiedeva con la sua famiglia. All'improvviso venne avvicinato alle spalle da un gio¬vane che era alla guida di un motorino. Lo sconosciuto estrasse la pistola, una calibro 7,65 munita di silenziatore, e gli sparò un colpo alla nuca. L’appuntato Izzo morì sul colpo. Subito dopo l’omicidio all’interno del carcere scattarono provvedimenti restrittivi nei confronti dei detenuti furono sospesi i colloqui e le visite dei familiari dei detenuti. Si cercava una pista per capire il movente di un omicidio che per la sesta volta in due anni vedeva come vittime agenti di custodia e diri¬genti del carcere di Poggioreale. Il primo a essere ucciso fu il vicedirettore del penitenziario Giuseppe Salvia (il 14 aprile 1.981). Poi toccò agli agenti Agostino Battaglia (5 giugno 1981), Alfredo Paragnano (13 febbraio 1982), Antimo Graziano (14 settembre 1982) e Gennaro De Angelis (15 ottobre 1982).

In serata arrivò una rivendicazione telefonica dell'agguato a Nicandro Izzo. Uno sconosciuto telefonò alla redazione napole¬tana del quotidiano “Il Mattino”. L'anonimo interlocutore parlava a nom di un sedicente "Fronte delle carceri": “Abbiamo giustiziato con un colpo di pistola calibro 9 in via Nuova Pog¬gioreale il vile appuntato Izzo», dice una voce maschile. “Se i soprusi e i maltrattamenti all'interno dell'Istituto di pena non finiranno, il massacro continuerà”. Una rivendicazione poco attendibile, perche Izzo era stato ucciso con una pistola calibro 7,65. Nel carcere di Poggioreale erano state trovate pistole, col¬telli, stupefacenti ed erano stati denunciati anche episodi di pestaggi da parte delle guardie ai danni di detenuti. A Nicandro Izzo, riconosciuto “vittima del dovere” dal Ministero dell’Interno il Comune di Calvi Risorta ha dedicato una strada. Il suo assassino non è stato mai individuato. Un omicidio teatrale - PASQUALE MANDATO - Ucciso il 5 marzo 1983

Come ogni mattina il maresciallo degli agenti di custodia Pasquale Mandato era sceso puntuale dall'autobus che lo aveva portato da Portici, dove abitava con la famiglia, fino a Santa Maria Capua Vetere, in piazza San Francesco. C'era la fermata proprio lì, vicino al vecchio carcere. Un salto al tabacchino per comprare un foglio di carta protocollo e poi a prendere servizio per un'altra giornata di lavoro. Erano appena passate le otto. Da casa era partito qualche ora prima. Si alzava sempre di buon'ora per arrivare puntuale sul posto di lavoro. Da Portici a Santa Maria Capua Vetere, doveva salire su un paio di mezzi pubblici per arrivare al carcere. C'era abituato e non gli pesava più di tanto. Piuttosto erano le preoccupazioni per i figli che lo tene¬vano in apprensione. Il primo, Francesco, aveva venticinque anni e studiava ancora all'Università. II secondo, Attilio, venti anni, era anche lui studente e disoccupato. Come pure la terza figlia, Maria Grazia, quindici anni. Ogni mattina si fermava vicino all'edicola per consultare “Il bollettino dei concorsi”, per vedere se c'era un bando che potesse riguardare il primogenito, France¬sco. Era fidanzato ed era già pronto per mettere su famiglia. Ma senza lavoro era impossibile fare un passo del genere. Quella mattina, uscito dal tabacchino, Pasquale Mandato doveva per¬correre solo pochi metri per arrivare al carcere, ma non riuscì a farli perche dall'angolo di corso Umberto, dove si incrocia con piazza San Francesco, si avvicinarono due Renault e un'altra auto. Gli arrivarono quasi addosso. Si abbassarono i finestrini ed uscirono fuori pistole e fucili a canne mozze che cominciarono a sparargli contro. In pochi attimi il corpo di Pasquale Mandato fu raggiunto da numerosi colpi di arma da fuoco. Lo colpirono al collo e alla testa. Pasquale cadde a terra in una pozza di sangue. Era quasi morto. Un killer scese da una delle autovet¬ture per sparargli il colpo di grazia. Uno sfregio ulteriore al corpo di un servitore dello Stato. Una sfida in piena regola fatta con rozza teatralità. Una diecina di killer per ammazzare una persona inerme era una cosa mai vista, se non negli attentati fatti dai gruppi terroristici. Moriva cosi, sabato 5 marzo 1983, Pasquale Mandato, cinquantatre anni, sposato e con tre figli. Ucciso davanti al carcere dove lavorava. Era I'ennesima vittima che il corpo degli agenti di custodia pagava come tributo all'intransi¬genza dimostrata nei confronti della criminalità organizzata. Pasquale Mandato venne soccorso da alcuni agenti di custo¬dia che si trovavano in un bar vicino. Lo trasportarono inutil¬mente nell'ospedale Melorio di Santa Maria Capua Vetere per¬che era già morto. L'autopsia, eseguita dal prof. Michele Pilleri nell'obitorio del nosocomio, riscontrò sul corpo dieci ferite da arma da fuoco. II maresciallo Pasquale Mandato, nativo Pietrelcina (Bene¬vento), il paese dov'e nato Padre Pio, era sposato. con Anna Gelosi (avevano un anno di differenza, Pasquale 53 anni e lei 52). Si erano conosciuti a Portici, dove Pasquale aveva frequentato la scuola degli agenti di custodia dopo un primo periodo a Cairo Montenotte. A Santa Maria Capua Vetere il maresciallo Mandato era giunto nel 1976, proveniente da Taranto. Aveva già maturato una lunga esperienza in varie carceri italiane. Era stato a Parma, dove nacque il primo figlio, Francesco. Poi il trasferimento a Napoli, nel carcere di Poggioreale. Successivamente nell'isola di Pia¬nosa, in Toscana. A Pozzuoli, nel carcere femminile e poi a Taranto. Nella città pugliese, insieme ad altri due suoi colleghi, aveva domato un incendio appiccato da un detenuto nella propria cella, evitando il propagarsi del fuoco all'interno del padiglione del carcere. E per questo il 19 aprile del 1975 aveva ricevuto una Lode Ministeriale. II 2 giugno 1980, invece, gli era stato confe¬rita l'onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica ita¬liana dall'allora presidente Sandro Pertini. Da alcuni anni era il responsabile dell'ufficio matricola a Santa Maria Capua Vetere e rivestiva i1 grado di maresciallo e vicecomandante delle guardie carcerarie. A dare il colpo di grazia si ritenne fosse stato Michelangelo D’Agostino , originario di Cesa, poi divenuto collaboratore di giusti¬zia. D'Agostino fu anche uno degli accusatori di Enzo Tortora.

Proprio il pentito D'Agostino all'inizio di luglio del 2008 e ritornato nelle cronache dei giornali perchè omicida del sessan¬taquattrenne Mario Pagliari, ex pescatore e titolare dello stabili¬mento balneare Apollo di Pescara. Quell'episodio ha fatto di nuovo scattare nella famiglia Mandato sentimenti di angoscia, riportando tutti con la mente a quel 5 marzo del 1983. Il 10 dicembre 2005 nel torso della Festa della Polizia Peni¬tenziaria tenuta nel nuovo carcere di Santa Maria Capua Vetere, e stata scoperta una lapide che ricorda il maresciallo Pasquale Mandato. Il 5 ottobre 2008 al maresciallo maggiore scelto del disciolto Corpo degli agenti di custodia Pasquale Mandato a stata asse¬gnata la medaglia d'oro al merito civile, con questa motivazione: “Mentre si recava presso la Casa circondariale dove prestava servizio, veniva mortalmente raggiunto da numerosi colpi di fucile e di mitraglietta esplosigli contro in un vile e proditorio agguato della criminalità organizzata, sacrificando la vita ai più nobili ideali di coraggio e di spirito di servizio. Santa Maria Capua Vetere (Caserta ), 5 marzo 1983”. I suoi assassini camminano in mezzo a noi…

 
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