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LIBRI: STORIA DEL CASERTANO BENEDUCE, SUOCERO FONDATORE MEDIOBANCA


CASERTA - Probabilmente la storia non è affatto maestra di vita, ma se si vuole conoscere la propria identità e, se si vuol comprendere qualche perché dell’assetto sociale, economico e politico di un paese, la pista migliore resta sempre una razionale e fredda indagine sul passato, con la sua cronaca e i suoi protagonisti. In genere, la rimozione o la sottovalutazione, quando non si sconfina nella manipolazione, non fanno altro che ritardare la comprensione di una coscienza collettiva e quindi anche individuale. Per anni, chiunque si è occupato di economia e finanza in Italia, ha sempre sentito parlare di Alberto Beneduce, il suocero di Enrico Cuccia, l’uomo che ha diretto l’Iri e ha creato quello che sarebbe diventato il “salotto buono” per eccellenza, la mitica Bastogi, che il finanziere Michele Sindona “osò” scalare nei primi anni Settanta, subendone drammatiche conseguenze. Beneduce è sempre apparso come un personaggio da “addetti ai lavori”, quasi sospeso nell’aria, e non una figura, come è invece stata, che ha segnato profondamente lo sviluppo dell’Italia, fino a diventare una sorta di dittatore in campo finanziario ed economico negli anni Trenta, in un periodo di grande depressione mondiale, guadagnandosi l’appellativo di “finanziere di Mussolini”. Insomma quello che è consegnato alla storia è un Beneduce di cui è bene parlare poco, che è meglio avvolgerlo nella nebbia del passato e lì lasciarlo. Il problema è che Beneduce è un personaggio scomodo, soprattutto per gli italiani del secondo dopoguerra, per la cultura in genere e per la classe dirigente di questi ultimi sessanta anni di storia italiana. Da qualsiasi parte lo si prenda, il casertano Alberto Beneduce (classe 1877) fa storcere il naso. Ai cattolici, per esempio, in quanto dichiaratamente massone, un grado “33” che collaborò, come assessore, con il grande sindaco di Roma Ernesto Nathan , il quale fu addirittura un “numero uno” della massoneria italiana di Palazzo Giustiniani. Ma non piace neppure alla sinistra, di ogni tipo, perché Beneduce nasce come socialista riformista di stretto stampo risorgimentale, che nulla ha a che fare con la vulgata marxista italiana. E fu pure aperto al dialogo, fin dai primi anni del Novecento con Francesco Saverio Nitti, esponente dell’ala radical-democratica dell’Italia giolittiana. In più Beneduce fu interventista durante la Prima guerra mondiale. E, in fondo, non va bene neppure ai liberali, perché il laureato in matematica Beneduce (così come John Masynard Keynes) ebbe opinioni diversissime in campo economico dai tradizionali liberali di stampo giolittiano. I difensori del libero mercato, anche se non proprio del laissez faire, sono sulla sponda teoricamente opposta all’interventismo statale in economia che Beneduce perseguì durante la sua vita. In più, contro ogni logica, il finanziere Beneduce, dopo la marcia su Roma del 1922, abbandonò ogni progetto politico (era stato anche ministro del Lavoro con Nitti) e si mise a collaborare, grazie alla sua grande capacità economica, con il fascismo. Non fu il solo. Ma la vulgata, in genere, è più tollerante con Raffaele Mattioli, grande leader della Banca Commerciale Italiana, persino con il giovanissimo Enrico Cuccia che smascherò in una missione in Africa, per conto di Mussolini a cui poi riferì, i “maneggi valutari” del generale Rodolfo Graziani. Per Beneduce c’è stato invece una sorta di “cordone si sicurezza” e di scarsa informazione, come se non dovesse essere esposto e divulgato, se non nello stretto ambito degli addetti ai lavori. A rimettere le cose a posto ci pensano due bravi scrittori, Mimmo Franzinelli (storico del fascismo) e Marco Magnani (autore di primo piano della storia industriale), con il libro “Beneduce. Il finanziere di Mussolini” (Mondadori). Ricostruendo la vita di Alberto Beneduce, i due autori dipingono il modello dello Stato in periodo fascista, cioè di uno Stato che interviene nell’economia dopo la crisi del ’29 e che caratterizza una società a economia cosiddetta mista. Comunque la si veda, non c’è dubbio che quell’intervento statale sostenne lo sviluppo industriale e salvaguardò la stabilità finanziaria dell’Italia. Ma c’è di più. Il modello che in quegli anni fu preso e interpretato soprattutto da Beneduce, è rimasto sostanzialmente in piedi fino agli anni Novanta, divenendo un fattore cruciale di sviluppo di tutto il paese. I due autori chiariscono bene il percorso di Beneduce. Agli inizi del Novecento condivise con Nitti l’ambizione di modernizzare l’Italia. Nell’immediato primo dopoguerra fu deputato socialista e nel 1921-22, nel penultimo governo dell’Italia liberale, resse il ministro del Lavoro dopo aver lavorato all’Ina e all’Opera nazionale combattenti. Quando le camicie nere del fascismo marciarono su Roma, Beneduce assistette stordito e attonito al crollo del suo mondo: la Massoneria, di cui era stato uno dei maggiori esponenti venne disciolta, le opposizioni disperse e perseguitate. Beneduce restò antifascista e decise di abbandonare la politica per dedicarsi a tempo pieno alle istituzioni finanziarie. In questa scelta venne sostenuto dall’amicizia di un personaggio influente dell’epoca, l’allora capo della Banca d’Italia, Bonaldo Stringher. È qui che scatta un meccanismo che è difficile decifrare completamente. Fu un opportunista Alberto Beneduce? L’uomo che chiamò tre figlie Nuova Idea Socialista, Vittoria Proletaria e Italia Liberata, riservando solo alla prima il “normale” Anna e al maschio, quinto figlio, un altro “normale” Ernesto, poteva mettersi a collaborare con il fascismo di Mussolini? Come poté sostituire l’amicizia di Anna Kuliscioff e di Leonida Bissolati con i finanzieri del regime? Forse qui si apre un capitolo che non riguarda solo Beneduce, ma una parte di italiani che si ritennero “indispensabili” (termine di Mattioli) nella storia d’Italia, anche in periodi oscuri per la democrazia. Ma non c’è dubbio che il dilemma resta. Certo per Beneduce il problema è più complicato. Perché Mussolini, lungi dal penalizzare l’ex avversario politico, ne valorizzò le straordinarie qualità e strinse con lui un patto fiduciario che non venne mai meno. Fu a quel punto che la scalata di Beneduce non conobbe soste: arrivò alla guida dei più importanti istituti economico-finanziari, dal Crediop, Istituto di credito per le opere di pubblica utilità, alla Bastoni e diventò il negoziatore internazionale nella battaglia per la “quota 90” su diretto mandato di Mussolini. Ma la svolta più significativa avvenne nel 1933, quando al culmine della grande crisi che scosse anche l’Europa, Beneduce fu chiamato da Mussolini alla presidenza di un nuovo ente pubblico, l’Iri, che acquisì il patrimonio industriale fino ad allora controllato dalle grandi banche appena liquidate. Fu così che, alla testa di numerosi enti pubblici retti da regole privatistiche (sarà lo schema del genero Cuccia a Mediobanca in periodo democratico) ma ben controllate dallo Stato, Beneduce cumulò un potere oggi inimmaginabile. E Mussolini lo protesse e da lui non volle nessuna retroattiva abiura politica. Beneduce morì nel 1944, poco prima della liberazione di Roma, ma il sistema di economia mista da lui creato, metà privato e metà pubblico, sopravvisse al fascismo e fornì un impulso determinante al decollo economico del secondo dopoguerra, sino alla liquidazione dell’Iri e al processo di privatizzazione attuato negli anni Novanta. Vi è da aggiungere che, proprio in questi mesi, di fronte alla grande crisi finanziaria mondiale che ha colpito i mercati di tutto il mondo, c’è una riconsiderazione dell’azione dello Stato nell’economia cosicché si sono riaccesi i riflettori sul “sistema Beneduce”. Al di là di queste considerazioni più tecniche, c’è comunque il personaggio umano Beneduce, che divide: grande opportunista o grande italiano servitore dello Stato? Solo gli sciocchi possono dare una risposta secca e riduttiva. (daInternet) 16 marzo 2009

 
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