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*LIBRI, CRIMINE E MALATTIE MENTALI: DELITTI E SENTENZE ESEMPLARI*



DELITTI & SENTENZE
ESEMPLARI
Alcuni casi di internati nel Manicomio Criminale di Aversa, in provincia di Caserta
Un raccontare di storie della malattia mentale…


Elaborazione testi e commenti a cura di Ferdinando Terlizzi

Pubblicato dal Centro Scientifico Editore di Torino, facente parte della collana di Criminologia Clinica, Psicologia Giudiziaria e Psichiatria Forense, con la prefazione di Ugo Fornari (Direttore Unità Operativa di Psichiatria Forense, Criminologia Clinica e Psicologia Giudiziaria dell’Università di Torino ), è stato redatto dal dr. Adolfo Ferraro, un volumetto che ritengo assai interessante per gli studiosi e gli operatori del diritto.

“E un raccontare di storie”. – come è detto nella quarta di copertina – “Quotidiane, umane, comuni, di gente che incontrò nella propria vita il malessere della malattia mentale e il rimedio del manicomio criminale. Storie che affiorano dalle sentenze che giudicarono i delitti imperfetti utilizzando il modello psichiatrico forense in uso in Italia nel decennio successivo alla applicazione delle misure di sicurezza sancite dal codice Rocco nel 1930.
Le sentenze riportate sono state estratte dall’immenso archivio delle cartelle cliniche conservate nell’attuale Ospedale di Aversa, a cura, come detto, del direttore, Adolfo Ferraro, psichiatra e psicoterapeuta. Le predette sentenze raccontano di delitti “quotidiani”, che vanno dall’uxoricidio al furto con destrezza, dall’adulterio alla bestemmia, dalla pedofilia all’oltraggio a pubblico ufficiale. E di quando li si cominciò a giudicare come il frutto della follia.

“Tra la persona autrice o vittima di reato e il sistema della giustizia si colloca - ha scritto Fornari nella 2° di copertina – “una particolare attività clinica i cui fini sono quelli di diagnosticare, valutare, prevedere, dare indicazioni terapeutiche. Questo lavoro comporta un’attività di formazione continua che esula dalla preparazione fornita dalle scuole di psichiatria e di psicologia cliniche perché riguarda un datore d’opera ( il magistrato ) e un utente ( il periziando ) che non sono quelli tradizionali. Per contro, la medicina legale è in grado di fornire un metodo ma non una preparazione in ambito clinico. Ecco allora che è apparso opportuno dedicare una serie di pubblicazioni ai temi specifici della criminologia clinica, della psicologia giudiziaria e della psichiatria forense. Il contenuto clinico e la metodologia medico- legale sono i due aspetti fondamentali che caratterizzano i volumi di questa collana”.

“Adolfo Ferraro – ha scritto Ugo Fornaro nella presentazione del volume – “in questa sua monografia, ha esaminato, attraverso la riproduzione integrale di alcune sentenze dell'epoca tratte dall'archivio dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, di cui è il Direttore, il modello giudiziario e psichiatrico forense utilizzato in Italia dopo l'introduzione delle misure di sicurezza, come esplicitate nel codice penale del 1930. In particolare, il ricorso all'internamento nel manicomio criminale fu prassi diffusa per porre rimedio ai "rei folli" e ai "folli rei" dopo il 1930 fino a un recente passato, quando alcune sentenze della Corte Costituzionale (in particolare: 8 luglio 1982, n. 139; 15 luglio 1983, n. 249; 2-18 luglio 2003, n. 253) hanno radicalmente mutato il trattamento del prosciolto per vizio totale di mente socialmente pericoloso”.
“La psichiatria forense nata in Francia agli inizi del 1800 con Pinel, Esquirol, Georget, Leuret e altri illustri rappresentanti, ha perseguito, nella prima metà del secolo XIX, un progetto prevalentemente umanitario: quello di sottrarre alla pena capitale autori di reati efferati e gravi, attraverso la loro inscrizione nelle nuove categorie psichiatriche che si andavano man mano costruendo. A loro volta, queste venivano applicate in stretta osservanza con quelle esplicitamente previste nei codici penali come rilevanti nell'escludere la punibilità dell'autore di reato. All'aspetto più squisitamente filantropico, nella seconda metà dell'Ottocento se ne affiancarono due altri, teorizzati e praticati soprattutto dai freniatri italiani: quello della difesa sociale, fondato sulla categoria del "socialmente pericoloso" e quello della ossessiva patologizzazione di tutti i comportamenti "devianti".
“La tutela della società nei confronti dei comportamenti "nocivi" del "disturbato psichico" ampiamente inteso era garantita dai freniatri, dai medici legali e dagli antropologi criminali attraverso l'etichettatura psichiatrica e il ricorso a due istituzioni totali: il manicomio civile e quello criminale, fondamentalmente destinati l'uno ad accogliere il malato di mente "comune", l'altro quello "speciale", autore cioè di reato e socialmente pericoloso. Tale distinzione, nel dogmatismo che connotava le discipline psichiatriche, criminologiche e medico-legali del tempo, per i nostri predecessori aveva certamente senso e per loro non era priva di fondamento "scientifico".
Il loro progetto fu quello di offrire un modello di personalità folle di cui erano elementi costitutivi il carattere ereditario, il fondamento degenerativo, la lesione organica (reale o presunta tale), localizzata o diffusa. Analogo fu l'obiettivo dell'antropologia criminale (nata con e dalla freniatria attraverso le teorie di Cesare Lombroso) che generò lo stereotipo del delinquente nato, cosi definito nel 1880 da Ferri e inteso come individuo più simile al bestione primitivo che alla specie umana (teoria dell''atavismo e della regressione), caratterizzato da ben individuabili stigmate somatiche, prime fra tutte quelle cranio-encefaliche (craniometria e antropometria), fornito di caratteristiche patologiche epilettoidi, nel senso di scariche emotive e comportamentali immediate, sproporzionate, violente e incontrollabili (epilettoidismo).
La "nuova scienza" prese vigore in un momento storico in cui la teoria della degenerazione mentale di Magnan e di Morel, sviluppatasi tra il 1850 e il 1870, era stata accolta con notevole successo ed era divenuta la teoria dominante della psichiatria europea. Gli ambienti scientifici europei, compreso quello italiano, inoltre, erano stati non poco scossi dalla comunicazione tenuta nel 1858 da Darwin (1809-1882) circa la Origine della specie (edita a Londra nel 1859). Infine, il mondo della cultura era impregnato del determinismo comtiano, dottrina filosofica sorta in Francia tra il 1830 e il 1840 e che, come noto, aspirava alla organizzazione delle conoscenze umane fondata sulla rigorosa osservazione dei fatti riuniti in un unico corpo di scienze: fatti sperimentabili e suscettibili di misurazione e di sistemazione sotto leggi scientifiche.

A sua volta, la teoria lombrosiana si colloca in un preciso momento della nostra storia passata: l'ottobre del 1873, che vide nascere in Italia la psichiatria con la fondazione della Società Italiana di Freniatria. Nel corso del I Congresso italiano, tenutosi presso il palazzo municipale di Imola dal 21 al 27 settembre 1874, fu adottato il termine dì freniatria e, in aperto contrasto con la scuola francese, ma in accordo con quella tedesca, le malattie mentali furono definite affezioni del cervello, "acquisite o congenite, primitive o secondarie, idiopatiche o simpatiche".
In quella sede furono affermati la specificità medica e l'orientamento organicista della psichiatria e fu accettata, nella sostanza, la definizione di "pazzia" sopra sintetizzata e formulata da Andrea Verga, considerato unanimemente il padre della psichiatria italiana. Identica posizione fu ribadita nel manifesto freniatrico steso nel 1875 da Carlo Livi, freniatra in quel di Reggio Emilia.
Gli psichiatri italiani ereditarono dai loro predecessori il convincimento secondo il quale capisaldi di ogni diagnosi di follia erano la presenza del delirio e la perdita della ragione: conseguenza inevitabile era la perdita della volontà delle proprie azioni. Di fronte a forme di comportamento caratterizzate da una "perfetta conservazione delle facoltà intellettive e della ragione, e perversione o assenza delle facoltà morali posero l'enfasi sulle "lesioni della morale".
Convinti assertori delle teorie sulla degenerazione, sull'evoluzionismo e sull'atavismo, i freniatri italiani elaborarono in parte la dottrina della monomania derivata dalla scuola francese, soprattutto nella sua varietà istintiva, ma poi si dedicarono con tutte le loro energie ai temi ella follia morale, della paranoia, della follia transitoria, dell'epilessia (specie psichica e sensoriale) e alla teoria del delinquente nato, identificato con il pazzo morale e l'epilettico (1884-1885).

E’ fuori dubbio che freniatri e antropologi criminali dell'Ottocento abbiano usato il loro sapere per spiegare scientificamente il "diverso", patologizzandone tutti i comportamenti difformi e legittimando la sua neutralizzazione attraverso il contenimento nel manicomio civile e in quello criminale.
La loro formazione li portava a ritenere che la strategia più convincente per l'epoca fosse quella di ricondurre la criminalità alla malattia mentale: entrambe nell'alveo dell’unicausalità biologica, neurologica, anatomo-patologica. Soprattutto insistevano sull'ereditarietà, sulle asimmetrie craniche e facciali, sulle anomalie di prima formazione nel cervello e in altri organi, per dimostrare la "necessaria", "obbligata" influenza negativa dell'organico sull'evoluzione psichica dell'individuo.
In base a questi presupposti "scientifici", i freniatri (da Verga a Tamassia, Livi, Tamburini, Lombroso, Biffi, Bonacossa, Virgilio, Bini, Morselli, per non citarne che alcuni tra i sommi) ritenevano che ”in costoro il primo fondamento sta in uno stato semiatrofico del cervello o di altri organi”.
Sul piano del "trattamento" di questi soggetti, se autori di reato, uno dei temi più discussi dalla freniatria e dall'antropologia criminale sul finire dell'Ottocento fu l'organizzazione e l'utilizzazione dei manicomi criminali. Illustri esponenti della freniatria, della medicina legale e dell'antropologia criminale discussero a lungo sui temi dell'infermità di mente e della pericolosità sociale: ampio spazio fu dedicato al problema del controllo sociale dell'autore di reato malato di mente, attraverso la richiesta di istituire, anche in Italia, i manicomi criminali, che già esistevano in Irlanda (1850), Scozia (1858), Inghilterra (1863) e in alcuni Stati americani (Auburn, Massachussetts, Pensylvania). Ricordiamo, tra i molti, Lombroso, 1872; Biffi, 1872; Bonacossa, 1872; Monti, 1873; Bergonzoli, 1873; Cappelli, 1873; Tamburini, 1873; Ziino, 1874; Tamassia, 1876; Virgilio, 1877.
In attesa dell'auspicata riforma, Lombroso aveva chiesto che venissero stabiliti "nelle grandi case di pena dei comparti pei condannati impazziti; e che nei manicomi provinciali dei grossi centri si aprissero dei comparti speciali per le forme intermedie di pazzie criminali, in cui la dimissione non possa aver luogo se non con istraordinarie cautele”. Tamburini, per non citare un altro tra gli illustri freniatri del tempo, facendo eco a Lombroso, aveva manifestato costantemente l'opinione che tenere i pazzi criminali ( “quelli cioè che commisero un crimine in istato di pazzia, o che vi caddero dopo commesso il crimine”) in carcere o in un manicomio comune fosse un atto ingiusto, perché "di cattivo influsso sugli altri detenuti'' o perché fonte "d’indicibile ribrezzo agli altri alienati e alle loro famiglie”. Essi infatti "esercitano realmente sempre una trista influenza, un dannoso contagio sugli altri, perché, tendendo essi, per l’indole stessa della loro malattia, alla turbolenza, alla ribellione, agli atti violenti ed osceni, si formano come centri d’infezione morale ed intellettuale che, attaccando gli altri, eccitano il disordine ed obbligano spesso a misure coercitive anche sugli alienati comuni”.
Per ovviare a questo "inconveniente", una prima mossa fu fatta nel 1872: il Ministero dell'Interno inviò una circolare a tutti i Direttori dei manicomi italiani al fine di evitare "dispiacevoli conseguenze per l’ordine, la disciplina, lo stato igienico e la sicurezza interna delle case penali del Regno". In essa si chiedeva "di che distribuzione e di quali altre specialità dovrebbe andare munito un locale da destinarsi utilmente alla cura dei delinquenti alienati...”. Il riferimento era ai condannati “riconosciuti affetti da alienazione mentale o gravemente indiziati di esserlo”. In seguito, il ministro aveva richiesto annualmente ai Direttori dei manicomi e a quelli dei bagni penali una statistica particolareggiata degli "alienati criminali" che si trovavano nei rispettivi stabilimenti.
Nulla si farà negli anni successivi per la fondazione del manicomio criminale come auspicato dai freniatri. Solo nel 1885 Tamburini diede notizia che il Ministero dell'Interno "con lodevolissimo pensiero, ha stabilito di trasformare in Manicomio criminale la Casa di pena dell’Ambrogiana, situata in vicinanza di Montelupo Fiorentino". Ma il provvedimento che, nel progetto del codice penale del 1889, dava facoltà al giudice di far rinchiudere i prosciolti in un manicomio (criminale) non fu accettato né dall'una né dall'altra delle Commissioni parlamentari.
Nel frattempo, due sono i "manicomi criminali" fondati per accogliere i condannati-folli: Aversa (Caserta), 1876, denominato "Sezione per maniaci presso la Casa penale per invalidi di Aversa" e Montelupo Fiorentino (Firenze), 1886, primo a essere definito ufficialmente "manicomio criminale".
Le principali categorie destinate a fornire il contingente specifico al manicomio criminale, per la loro presunta pericolosità sociale, furono identificate in: monomani, epilettici e folli morali. Il 30 giugno 1889 venne approvato il Codice Penale Zanardelli che regolava l'imputabilità dell'autore di reato malato di mente secondo principi di stampo chiaramente liberale. Il luogo in cui si poteva disporre il ricovero del prosciolto era il manicomio civile: nessuna concessione al tanto auspicato manicomio criminale. L'autorità competente, cui il magistrato doveva consegnare il prosciolto ritenuto pericoloso, non era quella amministrativa, bensì quella di Pubblica Sicurezza. L'assegnazione alla casa di custodia, con cui il giudice poteva sostituire la pena della reclusione, era revocabile, ove fossero cessate le ragioni che l'avevano determinata.
I problemi suscitati dalla suddetta normativa furono oggetto di accurata analisi in uno scritto di Tamburini (1890), che segnalò come nessuna soluzione agli stessi si potesse trovare nelle Relazioni ministeriali sul Progetto (1887 e 1889), nelle Disposizioni di attuazione, nelle Disposizioni di coordinamento, e nel Testo definitivo del codice penale.
In particolare, quando il malato di mente veniva consegnato alla famiglia non esisteva l'obbligo di segnalazione all'autorità di pubblica sicurezza (in Toscana detta autorità era quella giudiziaria, altrove quella prefettizia, nelle province di Modena e di Reggio quella municipale, e cosi via) che invece doveva essere immediata in caso di "custodia pubblica (nei manicomi, cioè) e privata". Lo stesso, in caso di trasferimento o di evasione di alienati, di licenziamento o di dimissione in prova del soggetto non più malato.
Ammissione, custodia, "licenziamento", trasferimento, evasione o semplici permessi di uscita dall'istituzione dovevano essere dunque segnalati all'autorità di pubblica sicurezza che controllava la potenziale o supposta pericolosità sociale del malato di mente: questa rimaneva, in fin dei conti, la ragione principale che guidava e condizionava l'intervento psichiatrico istituzionale: e nell'operare in tal modo, assoluto avrebbe dovuto essere l'accordo tra le esigenze di controllo sociale e la psichiatria; anche se i freniatri si rammaricavano del fatto che per tutti i prosciolti e i "semi-responsabili" non fosse stato introdotto un sistema unitario e globale di controllo sociale, quale appunto il manicomio criminale.
Il dogma della validità del modello medico, la fede cieca e assoluta della sua fruibilità nel campo delle "frenopatie", la funzione di difesa della società che i freniatri avevano conferito alla loro "scienza", chiedendo, utilizzando e rinforzando le strutture manicomiali, con il passare degli anni, si sono sgretolati sotto l'incalzare degli interrogativi che - alla luce di nuove conoscenze e di metodi operativi più efficaci - hanno messo via via in crisi l'identità degli operatori di questa disciplina. Da allora a oggi, molti cambiamenti si sono verificati, in ambito sia psichiatrico, sia criminologico per quanto si riferisce all'evoluzione delle teorie e per ciò che riguarda le tecniche di intervento.
L'operatore psichiatrico odierno, nella maggior parte dei casi, può cercare di mettere la sua professionalità al servizio del paziente studiato, curato e assistito in un'ottica sistemica, e non più intraindividuale: egli, se vuole, può intervenire "qui e adesso" sulla sofferenza psichica, proponendosi egli stesso come agente di cambiamento; privilegiando tale funzione, egli pone in secondo piano, sullo sfondo del quadro operativo, il problema della predizione e della semplicistica neutralizzazione.
Lo psichiatra forense, invece, quando analizza un autore di reato affetto da patologia di mente, è tenuto a valutare anche la sua pericolosità sociale psichiatrica, sia pur graduandola da elevata ad attenuata. Egli ben sa (o dovrebbe sapere) che la nozione di "socialmente pericoloso" è concettualmente equivoca, riduttiva, amorfa, perché basata su tecniche predittive inadeguate e poco chiare, se non addirittura inutili e dannose; che il suo giudizio è svincolato da ogni carattere di obiettività e ubbidisce a convenzioni finalizzate a tutelare la società, piuttosto che i bisogni del malato; che tutti i metodi proposti e utilizzati per la predizione - longitudinale, comparativo, sperimentale e clinico si sono dimostrati fallaci; infatti dall'irripetibilità e unicità del comportamento umano discende l'impossibilità di prevederne risposte future con criteri di probabilità e tanto meno di certezza.
Anche lo psichiatra forense, quindi, (che sia tale o che sia un clinico che lavora anche in ambito forense) avverte sempre più l'utilità del "curare" e la futilità del "predire". Per potersi collocare in tale dimensione, però, è necessario che la perizia psichiatrica si trasformi radicalmente; che da relazione se non unicamente, certo prevalentemente svolta a fini prognostici, diventi rapporto che offre utili indicazioni per il trattamento. In altre parole, è necessario sostituire l'accertamento della pericolosità sociale (compito che deve rimanere di esclusiva pertinenza del magistrato) con quello della necessità di cure e assistenza specialistica, in regime di trattamento sanitario obbligatorio o no, secondo quanto stabilito nelle norme che attualmente regolano l'assistenza psichiatrica in ambito civile.
Alcuni potrebbero o vorrebbero vedere in tale processo trasformativo la morte della psichiatria forense; essi sbagliano, però. La psichiatria forense, infatti, non si esaurisce nell'indagine sull'autore di reato a fini diagnostici e prognostici, ma comprende già in ambito penale accertamenti che riguardano la possibilità di partecipazione cosciente al processo, la necessità di sostituire la custodia cautelare in carcere con altre misure, lo stato di mente della vittima, l'attendibilità del testimone, la capacità del minore. Esiste poi tutta la psichiatria forense in materia civilistica e canonistica, quella in tema di responsabilità (civile e penale) dell'operatore psichiatrico, l'attività inerente i vizi del consenso, eccetera.
Inoltre la disciplina si caratterizza per una sua propria metodologia e criteriologia, che le conferiscono caratteristiche peculiari non mutuabili dalla preparazione clinica, ma richiedenti una formazione e un training specifici; il demolire certi dogmi di chiaro stampo positivista e conservatore, quali ad esempio la "validità" del modello medico-psichiatrico e della prognosi in un settore in cui "vizio di mente", "infermità", "pericolosità sociale" sono semplici convenzioni consentirebbe di smascherare finzioni del tipo del "come se" e di restituire allo psichiatra la possibilità di uscire dalla posizione conflittuale e contraddittoria in cui attualmente si può spesso trovare. Infatti il compimento di un reato da parte di un malato di mente (o il riconoscimento di un vizio di mente in un autore di reato) rischia di comportare per lui un balzo all'indietro di almeno 100 anni per quanto si riferisce al suo "trattamento": non solo, ma spezza in due anche l'operatività dello psichiatra che, quando "perito", deve ergersi a giudice di quel malato di cui potrebbe essere "terapeuta" se intervenisse al di fuori del compimento del reato.
Il conferire "valore di malattia" a un atto criminale, in altre parole, deve essere collocato sempre più in un'ottica di intervento che ha come fine primario quello di ridurre, fino a eliminarla, la sofferenza psichica: tanto più nel contesto odierno, dal momento che le disposizioni contenute nel nuovo codice di procedura penale (artt. 70 e segg; 284, 286 e 312) e nell'Ordinamento penitenziario (legge n. 354/1975 e successive modifiche e integrazioni) hanno, di fatto, ampiamente ridotto e circoscritto le conseguenze giudiziarie del vizio di mente.
Ben venga dunque la pregevole monografìa di Ferraro, che, sotto il profilo della memoria storica, offre un eloquente e drammatico spaccato su un certo modo di fare psichiatria forense che si spera definitivamente tramontato. Se la competenza dello psichiatra in tema di accertamenti tecnici sull'autore di reato sarà sempre più circoscritta allo studio del malato di mente in fase di scompenso psicotico acuto o del fatto-reato cui sarà possibile conferire "significato di malattia" da tempestivamente affrontare in chiave terapeutica, il lavoro forense si sposterà progressivamente, ma decisamente dall'enfasi sulla prognosi a quella sulla terapia: restituendo così allo psichiatra il suo compito primario: quello di promuovere la salute mentale, non quello di neutralizzare i comportamenti difformi.
Se le nozioni di vizio totale e parziale di mente sono delle convenzioni, che restino tali, senza possibilità di trasformarsi in convinzioni e in "verità scientifiche"; il controllo e la neutralizzazione del malato di mente autore di reato (o dell'autore di reato portatore di disturbi psico-patologici), riconosciuto affetto da vizio di mente e ritenuto socialmente pericoloso non sono compito terapeutico o, meglio, non si identificano con la terapia. Una sentenza non è un progetto riabilitativo. Cura e controllo non sono concetti e strumenti di intervento equivalenti e intercambiabili, se non nella visione di coloro che vogliono a tutti i costi conservare, mantenere e giustificare l'esistente, ostacolando e vanificando ogni progetto di trasformazione. Se il legislatore, per ragioni di tutela e di ordine sociale, lo ritiene necessario, ha il diritto e il dovere di inventare strumenti, metodi e strategie di repressione, di punizione e di neutralizzazione. Non cerchi però una loro giustificazione e legittimazione sostenendone una impossibile identità con fini riabilitativi o terapeutici, che mai la pena e la misura di sicurezza - di per sé considerate - hanno avuto e potranno avere”.

***

Nella sua introduzione Adolfo Ferraro, dopo aver esaminato le problematiche dei primi cinquant’anni del Novecento, l’evoluzione dell’applicazione della psichiatria nella branca forense, ha trattato l’applicazione della stessa a partire dal codice Zanardelli e fine al codice Rocco.


“Le sentenze, poi”, - ha scritto tra l’altro il Prof. Ferraro – “nell'atto pratico della loro estensione erano influenzate anche dal giudizio che gli stessi giudicati avrebbero ricevuto da esse, in quanto sino ai primi anni sessanta del secolo scorso i magistrati erano valutati per gli opportuni avanzamenti di carriera proprio dal numero e dalla qualità delle sentenze emesse. E spesso per questo motivo, anche quando non era il caso, ne approfittavano per utilizzare un linguaggio che risentiva di buone letture e di discrete capacità oratorie. Inoltre, anche la letteratura a cavallo del secolo stava inevitabilmente attraversando un momento di cambiamento, e i collegi giudicanti risentirono di un lessico colto e spesso eccessivamente forbito. La Giustizia, del resto, si trovava a doversi confrontare con un mondo criminale che, nella sua monotona ripetitività, produceva comunque i delitti di sempre: uxoricidi o violenze o assassini o furti o stupri. Che però erano certamente meno accettabili per una società in evoluzione quale quella che si avvertiva all'epoca, in cui tutto poteva e doveva essere spiegabile e comprensibile, e comunque controllabile. Il trovarsi al cospetto di azioni delittuose sovente immotivate o ingiustificabili, o comunque dal difficile giudizio, rischiava di produrre una diminuzione della credibilità della Giustizia, e infine della società stessa in un periodo in cui, ancora di più che in altri, non era possibile permetterselo. Per questo, forse, i delitti divennero "esemplari": per poter fare apparire "esemplari" le sentenze. Venne in aiuto la possibilità, per i giudici e spesso anche per gli imputati, del riconoscimento di una malattia mentale che, in un certo senso, metteva le cose a posto, concedendo spiegazioni scientifiche a quello che non era possibile spiegarsi razionalmente; e in questo senso la facilitante istituzione del manicomio criminale, oggetto e soggetto di una ulteriore segregazione psichica, fu il luogo dove isolare studiando (e viceversa) una enorme quantità di sciagurati provenienti da tutta Italia. Le sentenze di seguito riportate, estratte dall'immenso archivio dell'attuale Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa (considerate dal 1930, anno dell'applicazione del Codice Rocco, in poi), sono lo specchio di un passaggio graduale e lento, tanto da apparire a volte immobile, verso cambiamenti che si intravedevano già nelle descrizioni dei luoghi dei fatti del delitto, variando questi da campagne ancora povere di macchine e di trattori, a città dallo scarso traffico, con avvenimenti naturalmente motivati dalle stesse condizioni e dalle stesse pulsioni ed emozioni di sempre, dalla gelosia alle passioni perverse, all'uso della truffa come possibilità di sopravvivenza, alla prostituzione delle internate donne, presenti in Aversa fino al 1955. Ma le sentenze a quel punto avevano a loro disposizione i mezzi giuridici opportuni per soddisfare la scienza e la coscienza che erano dati dagli illustri pareri degli alienisti dell'epoca, o anche dal semplice "occhio clinico" del giudice, che a volte non richiedeva neppure le indagini peritali prima dell'applicazione della misura di sicurezza. Altri criteri di valore, del resto, erano dati dallo stato sociale dell'imputato, dalle motivazioni del delitto, o dalla particolare cattiveria espressa nell'atto delittuoso, tanto da far concludere che il soggetto colpevole non poteva che essere incapace di intendere e volere.
Ed ecco la follia venire a spiegare perché un marito infedele, fatuo ma apparentemente sano di mente, uccide l'amante che vuole abbandonarlo, o perché un pervertito tenta di violentare una minorenne, o una coppia di sposi termina la sua storia con l'uccisione di uno dei due da parte dell'altro. Storie di follia, si diceva e si sentenziava, ma che si venivano spesso a verificare in individui in cui la patologia si confondeva con le tradizioni, l'impulsività con la forza, la cattiveria con il malessere, e l'incomprensibilità del gesto era di per sé indicativa di diagnosi.
La criminologia o la psichiatria forense, discipline di cui la legge si serviva, dovevano basare la loro funzione sull'uso di elementi atipici e spesso empirici per spiegare e quindi giustificare una azione, quella del reo, altrimenti inspiegabile; le dinamiche analizzate, al confronto con una normalità di facciata, erano finalizzate all'esclusione di una logica
che inevitabilmente avrebbe risentito della necessità della spiegazione, e la perdita di controllo del reo, allontanatesi dalla realtà, rappresentava il motivo plausibile della condanna e della cura. Dalle sentenze riportate emerge un mondo popolato dai protagonisti delle storie che vengono sottoposti al giudizio penale, rappresentativi, si potrebbe dire, di ogni condizione sociale e culturale della società dell'epoca, i cui delitti - per svariati motivi - produssero l'applicazione della misura di sicurezza da parte dei collegi giudicanti: erano operai o nobili decaduti, frenastenici o signorine di buona famiglia, prostitute e poveri disgraziati. Accomunati però dalla commissione di un delitto incomprensibile e, quindi, giustificabile solo con la follia, senza precedenti di natura giudiziaria e sanitaria, trattandosi o di soggetti incensurati in cui mai in precedenza si sarebbe potuto prevedere il passaggio all'azione criminale; o, ancora, di soggetti già riconosciuti malati e nel contempo poco gestibili dalle strutture sanitarie dell'epoca. Il controllo e la prevenzione erano direttamente collegati all'esclusione, e una volontà simile appariva anche nelle sentenze che giudicavano i reati commessi come particolarmente oltraggiosi per la morale dell'epoca, così come i loro autori. Questi non necessariamente dovevano commettere delitti efferati per giungere ospiti del manicomio criminale, essendo sufficienti spesso azioni comunque sovversive dell'etica del tempo, per vedersi applicare i due o cinque o dieci anni previsti dalla legge”.
***

II seduttore di bimbe

Le parafilie, da quando si chiamavano ancora perversioni, hanno sempre avuto protagonisti di ogni ceto sociale e cultura, e il caso che segue sembra dimostrativo. Un ingegnere di Bordighera con madre di origine inglese, che superati i quarant'anni, scopre l'insana passione per bimbe dodicenni a Caltanissetta, inducendo addirittura una delle piccole vittime a divenire procacciatrice di altre bambine, procurando a lei un guadagno pari alla metà della cifra concessa alle ragazzine.
Gli intrecci che vengono descritti nel corpo della sentenza sono sufficientemente eloquenti, e del resto lo stesso pedofìlo, a cui erano state sequestrate anche foto pornografiche, non negò tale condizione, ritenendo però le bambine consenzienti e, come si conviene in questi casi, anche un po' provocatrici. La Corte valutò una perizia psichiatrica ordinata dal giudice istruttore, che fu affidata, non si sa bene perché a un chirurgo, per valutare le capacità di intendere del reo. Il perito, dopo aver descritto con molta vivacità di colori il delitto, concluse nella totale incapacità di intendere e volere dell'imputato al momento del fatto. Tale considerazione fu valutata negativamente dalla Corte, che mise più volte in dubbio i risultati dello studio, dubitando anche della fonte delle informazioni apprese dal perito. Motivi dell'incapacità evidenziati sul periziando, così come aveva affermato il perito, furono individuati nel fatto che aveva "nove parenti su venticinque psicopatici ed alcuni affetti da lue", ed era “eccentrico e scialacquatore, essendo stato fìdanzato due volte", senza mai concludere la sua storia sentimentale in un matrimonio, perché voleva scappare con le ragazze per poi sposarsi civilmente. In effetti le valutazioni del perito erano inficiate da una benevola disponibilità a considerare tutti i segnali della dissolutezza dell'ingegnere come sintomi di una patologia psichiatrica, riportando che aveva "sciupato un patrimonio non esitando a vendere uno spezzone di terreno pur di assistere ad una partita di calcio"; ma i segnali su cui si basava la tesi ardita del perito presentavano dei buchi e delle contraddizioni che il buon senso dell'epoca non poteva non riconoscere: e la incapacità di intendere e volere risultò improponibile ai giudici, che non avrebbero potuto così semplicemente giustificare tali chiari reati sessuali.
Ma il corpo della sentenza, dopo affermazioni dubitative e neganti il pensiero del perito, e che lascerebbe credere all'idea di una piena imputabilità prevista dalla Corte, devia improvvisamente verso una conclusione inattesa: è vero che non basta la dissolutezza per identificare la follia, ma è pur vero che nessun uomo "normale" si azzarderà a compiere cosi turpi azioni. Il reo sarà quindi giudicato seminfermo, così come se le teorie della difesa, fino a poche righe più sopra negate con forza, e a volte anche con elegante sarcasmo, fossero infine in parte accettate. La variazione del pensiero appare, però, così brusca, quasi come se la seminfermità fosse stata una specie di concessione aggiunta alla sentenza, una attenzione personale per sfuggire l'angoscia, una giustificazione per cancellare l'idea della normalità dell'atto mostruoso. Anche in questo caso può essere solo la malattia mentale, in parte riconosciuta nonostante la provata insussistenza, a mettere a posto le cose: non è di persona normale e assennata un simile delitto, e la presenza della follia è condizione che spiega e, finalmente, tranquillizza.
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La sentenza:
Condanna Camillo Federico, riconosciuto colpevole di atti di libidine violenti continuati, di violenza carnale, con l’attenuante del vizio parziale di mente, ad anni sette di reclusione. Dopo aver scontato la pena venga ricoverato in una casa di cura.

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La donna nel pozzo

In Littoria, l'odierna Latina, nel 1938 fu celebrato un processo a carico di un contadino colpevole di aver indotto a morte la di lui moglie, sottoponendola a continue malvessazioni e maltrattamenti, iniziati già sette anni prima con la spinta in un pozzo in campagna. La poverina all'epoca si salvò grazie al latrare di un cane che fece accorrere il genitore del reo, anche lui contadino, che riuscì a salvare l'infelice. La donna, dopo sette anni, morì per una broncopolmonite che il marito non volle fosse curata, escludendola anche dal sollievo dei sacramenti, in quanto, come si evince dalla sentenza, impedì l'accesso sia del medico sia del prete. L'episodio del pozzo, più volte ripreso nel corpo della sentenza, sembra sia stato fondamentale non tanto alla malattia terminale della donna, quanto all'identificazione di un progetto che riteneva la donna utile solo agli interessi dell'uomo, un po' schiava e comunque vittima; criminale e delittuoso era quindi solo il soggetto, e non il contesto in cui il rapporto si esplicitava, fatto di soprusi e violenze anche nei confronti della quindicenne sorella della moglie, in un mondo contadino caratterizzato ancora dalla scarsa importanza delle istanze dei deboli, in quanto, proprio perché deboli, non erano in grado di garantire l'uso, soprattutto lavorativo o comunque di consumo, a cui erano destinati. L'epilessia da cui probabilmente l'uomo era affetto fu quindi la
spiegazione, parziale, di un comportamento che altrimenti era inspiegabile, se non con l'esistenza di una malvagità impossibile anche solo a pensarsi, visti gli eventi e i comportamenti. Nonostante dall'episodio del pozzo alla morte della donna fossero passati sette anni, in cui vi erano stati due aborti e infine una gravidanza portata a termine, indicativa è la considerazione che la donna fosse gravida sia al momento del primo tentativo soppressivo sia in quello ultimo e definitivo, con la negazione esplicita della cura, del corpo e dello spirito, da parte del marito. Quest'ultimo, nella sentenza, appare come un soggetto abominevole, attento esclusivamente ai propri interessi, circondato da succubi della sua violenza, dalla moglie al di lui padre, alla giovane violentata, tanto che una condizione di seminfermità rappresentò una scappatoia comprensibile e accettabile. Accettabile soprattutto perché escludeva non solo la cattiveria apparentemente fine a se stessa e quindi certamente patologica, ma perché giustificava un comportamento nei confronti delle donne che era, nel complesso, accettato e perpetuato da molti di più di quanti ne fossero accusati penalmente. In effetti si processò un modello culturale, rappresentato da un suo eccesso, che non dava troppo peso alle richieste di soggetti unanimemente considerati inferiori, quali all'epoca le donne, pensati ancora come cose, e di cui ci si sentiva nella condizione di poterli usare a piacimento: è estraneo al racconto di questa storia qualsiasi rapporto di affettività, non solo da parte dell'uomo, anaffettivo per definizione e per comportamento, ma anche da parte delle vittime. Esse subiscono per non perire e non per dedizione amorosa verso un soggetto che apparentemente non può produrre tale sentimento in alcuno. Anzi, tutti erano a conoscenza della malvagità del marito e della succube dedizione della donna, compresi il suocero e il padre dell'uomo; eppure tutti avevano condiviso l'accettazione di un rapporto che sembrava tenersi con lo spago, nell'assoluto disprezzo dell'uomo verso la donna. La donna gettata nel pozzo è simbolicamente la punizione e l'annullamento, il nascondere e dimenticare in un luogo buio l'onnipotenza e la sottomissione: e, paradossalmente l'uomo cattivo non si accorge di esserlo, in quanto è sua abitudine e consuetudine un atteggiamento che non considera i sentimenti, anche se essi fossero stati presenti, ma solo la presenza che si avverte verso un soggetto che può essere manipolato a piacimento. Possiamo esser certi che il reo, se glielo avessero chiesto, avrebbe affermato di amare la moglie. Per questo, forse, fu considerato seminfermo.

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La Sentenza:
La Corte dichiara Angelo Zona colpevole e con la diminuente della seminfermità mentale lo condanna alla pena di anni 15 per il tentato l’uxoricidio e ad anni 4 per i maltrattamenti. Dichiara condonati anni 9 per l’uxoricidio e anni 4 per i maltrattamenti restano da scontare in complessivo anni 8. Ordina che a pena espiata l’imputato sia ricoverato in una casa di cura per anni 3.
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L’idillio della Zitella

Che la passione amorosa produca una modificazione in senso riduttivo della coscienza è condizione nota a tutti quelli che ci sono passati. In
alcuni casi, e quello che segue è indicativo, è addirittura la condizione
patologica che produce un reato. Nella Venezia dei primi anni trenta
una brava ragazza di buona famiglia, impiegata alla Cassa Nazionale
Infortuni, e già avanti negli anni tanto da potersi incominciare a ritenere zitella, timorata di Dio e seria quanto basta, ha la ventura di incontrare come compagno di lavoro un giovane ventiquattrenne, di sei anni
più giovane di lei, che la seduce e la possiede, inducendola ad azioni che mai precedentemente ella avrebbe commesso: come incontrarsi carnalmente nelle case dei parenti vuote di persone, o in stanze in affitto, e addirittura sul luogo di lavoro. La donna successivamente affermerà che il giovanotto le aveva promesso di sposarla, e tale comportamento sarebbe stato quindi interpretabile come “prova d’amore” di una condizione emotivamente profonda, ma anche assai dubitativa da parte della donna, che aveva manifestato nascosti desideri e capacità deduttive precedentemente insospettabili ma che divenne però, nel tempo, assai gelosa e possessiva, anche perché si accorse che il comportamento di colui che lei (e solo lei) riteneva un fidanzato, era molto più leggero del previsto, riallacciando il giovane vecchi rapporti amorosi con altre donne, e intessendone di nuovi. In effetti il giovane si faceva giungere biglietti di appuntamenti sul luogo di lavoro, e la matura innamorata assunse atteggiamenti aggressivi mai precedentemente avuti, come quello di incontrare addirittura l’amante del fidanzato per dissuaderla dal rapporto, in quanto l’uomo sarebbe già stato impegnato con lei. Ma il comportamento dell’uomo, evidentemente, rimase quello leggero di sempre e tale condizione indusse la donna in un mattino di tarda primavera del 1933 a raggiungere l’uomo e sparargli, nell’idea, non realizzata, di uccidersi anch’essa dopo aver ucciso l’amante traditore.
L’uomo, nonostante l’essere stato colpito al torace, sopravvisse, e lei fu impedita nel gesto autolesivo dall’intervento di altre persone. Il successivo processo deve essere stato molto umiliante e imbarazzante per la donna e per la sua famiglia, composta da gente che mai aveva avuto a che fare con la giustizia, e questo elemento è assai leggibile nel corpo della sentenza e di questo certamente la Corte ne tenne conto. Ne tenne conto anche l’indagine peritale che concluse riconoscendo la donna affetta da “malinconia ansiosa derivante da azione convergente di tare biologiche e di circostanze ambientali emotive”, riconoscendola del tutto incapace di intendere e volere al momento del fatto, ma al momento del giudizio guarita. Producendo la consequenziale applicazione della misura di sicurezza da parte del collegio giudicante. Il quale si mostra, nel complesso, estremamente benevolo: il reato era stato sufficientemente importante, essendo un tentato omicidio, e la premeditazione era implicita, e i motivi erano tipicamente passionali. Al tempo, era già in vigore il Codice Rocco che, con l’art. 90, normava gli stati emotivi e passionali. Una passione, inoltre, da parte di un personaggio che sembra uscito da un romanzo di uno scrittore di feuilleton dell’Ottocento, e probabilmente proprio a quello devono essersi ispirati nell’estensione della sentenza i magistrati: quasi
zitella, impiegata di buona famiglia, fino ad allora tranquilla, vittima di
un dissoluto, divenendo ella capace di compiere azioni precedentemente impensabili, animata da una struggente passionalità verso l’uomo da divenire assoggettamento seduttivo. E infine la “pazzia”, un momento di passaggio all’atto che rappresenta l’espressione della malattia che, a ogni buon conto, era in parte anticipata da “tare biologiche” non meglio specificate, stimolate da “circostanze emotive”. Una malattia provocata evidentemente dai sentimenti e dalla loro ingestibilità, in un soggetto che solo con la presenza della patologia, avrebbe potuto compiere l’azione compiuta: qui la protagonista è figlia della medio borghesia veneziana, e le attenuanti, anche se non ci sono, si è disponibili a trovarle.
Il fatto viene raccontato come un continuo lacerarsi psicologico
della donna, con i sogni che s’infrangevano, le umiliazioni che si moltiplicavano, il senso del dovere che vacillava, sottolineando, anche graficamente, le decisioni più dolorose per la donna. Con il Pubblico
Ministero che, consapevole della situazione, propone la scappatoia del
Manicomio Criminale. Nel corpo del successivo “Diritto”, si sistema
l’intera vicenda: non esisteva premeditazione, la rivoltella era stata
comprata per difendersi da ipotetici ladri, e contemporaneamente per
farne un regalo al di lei fratello, con la cui famiglia ella conviveva; si
accettano le conclusioni della perizia psichiatrica, e si esclude l’ipotesi
di una condizione di sonnambulismo, così come richiesto dagli avvocati. Insomma la “donna matura” come viene definita nella sentenza,
travolta da un “turbinio emotivo”, semplicemente impazzisce, e non è
più responsabile penalmente delle proprie azioni: si salva la morale, si
punisce la rea tramite la sua “malattia”, ci si tranquillizza che certe
azioni possono essere compiute solo se vi è grave patologia. In tal modo Giustizia è fatta.
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La Sentenza:

La Corte, previa esclusione della aggravante della premeditazione, assolve Ida Renza, imputata di tentato omicidio, perché al momento del fatto era, per infermità in tale stato di mente, da escludere la capacità di intendere e di volere. Ordina il ricovero della stessa in un manicomio giudiziario per due anni.
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L’infanticida ingenua


Di mamme che uccidono il figlio appena nato per sbarazzarsi di un peso
verso cui non si sentono pronte e che cambierebbero la loro vita si è
sempre avuta notizia, non foss’altro per i frequenti ritrovamenti dei corpi
dei neonati abbandonati, anche se non sempre si riesce a identificare la
genitrice. La donna venticinquenne protagonista della sentenza che segue era una impiegata di buona famiglia milanese che, dopo una relazione durata un anno con un uomo che non appare se non di sfuggita nel racconto, si accorse di una gravidanza inattesa, e, come spesso accade in condizioni di inesperienza e inadeguatezza, non parlò con nessuno (almeno così raccontò l’infanticida) del proprio problema, portando avanti la gravidanza senza che nessuno si accorgesse di nulla. Alla fine dei nove mesi della gestazione nascosta, ella partorì, da sola e senza aiuto, un neonato che tentò dapprima di soffocare, riuscendoci come poi rilevato dalla perizia medico-legale sul cadavere, e poi gettandolo sul tetto di una casa vicina per sbarazzarsi dell’ingombrante fardello.
Successivamente recandosi, come se nulla fosse accaduto, il giorno
successivo alla sera del delitto, al lavoro presso “La Fiera di Parigi”, il
magazzino in cui era per l’appunto impiegata; mostrandosi anch’ella
apparentemente sconvolta del fatto delittuoso accaduto e udito dai
discorsi di alcune vicine, tanto da ritornare a casa e parlarne immediatamente con la madre, mostrando stupore e sorpresa per tale orribile evento, ma senza accusarsi. La Pubblica Sicurezza, si disconosce con quali modalità, dopo rapide indagini arrestò la donna, che ammise il fatto, e anzi, come si evince dalla sentenza, fu assai esplicita nel confermare le proprie responsabilità, nell’escludere quelle dei familiari e dell’uomo che l’aveva resa madre, confermando che il parto era avvenuto in assenza di altri e in piedi nella sua stanza che divideva con la sorella, rientrata in casa alla fine del parto e quindi inconsapevole, che il corpicino era ancora vivo quando fu gettato sul tetto antistante il suo balcone, e che non fu aiutata da nessuno durante la dolorosa operazione e la successiva pulizia di quanto avvenuto.
Il processo in Corte d’Assise a Milano evidenziò le dinamiche del
delitto, e prese in considerazione due perizie: quella autoptica medico-
legale sul corpo del neonato, che rivelò che era deceduto per soffoca-
mento, e quella psichiatrica sulla donna, che rivelò che l’omicidio era
stato “l’opera di un istante di smarrimento della ragione, della paralisi della volontà piuttosto che l’opera della perversità materna”, riconoscendo la donna, al momento del fatto, in stato di mente tale da escludere la capacità di intendere e di volere, e inoltre escludendo una malvagità immorale che mal si addice alla figura di una madre in genere.
Questaconclusione, però, non convinse il collegio giudicante, soprattutto per quello che riguardava la capacità di intendere della donna, che fu ritenuta invece presente: e, del resto, non avrebbero potuto fare altrimenti. Il comportamento della donna precedentemente e successivamente al delitto era stato caratterizzato dalla comprensione di quanto stava accadendo, e la “smemoratezza” riferita dal perito fu giudicata reticenza, anche perché negli interrogatori successivi all’arresto e durante il dibattimento a porte chiuse in tribunale, la donna dimostrò saggia prudenza nel rammentare ciò che avrebbe potuto comprometterla. Insomma la capacità di intendere, ovvero di comprendere il valore o il disvalore dell'azione delittuosa, fu riconosciuta presente, smentendo il perito psichiatra; fu però riconosciuta l'assenza della capacità di volere, ovverosia di autodeterminarsi nel raggiungimento o nell'evitamento della azione delittuosa.
Si evitò quindi l'idea di una madre perversa, ma le fu riconosciuta
una infermità, e una non imputabilità, che garantì l'esistenza di un
patologico rispetto una scelta così inammissibile e immorale. Tale considerazione condusse quindi la Corte a irrogare la misura di sicurezza del Manicomio Giudiziario per un periodo di due anni mostrandosi comunque benevolmente comprensiva della donna e del delitto.

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La Sentenza:

La Corte assolve Costa Matilde per aver agito in stato di totale infermità di mente e ordina che la stessa sia ricoverata in un manicomio giudiziario per un tempo non inferiore a due anni.

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Ubriachezza molesta

L'etilismo cronico ha sempre rappresentato un problema per chi ne è
affetto, per i familiari dell'alcolista, e per la società che non sa se
riconoscere lo status di dipendenza o di depravazione o di vizio o che
altro ancora, con tutte le difficoltà terapeutiche e riabilitative che tale
problematica ha sempre prodotto. Il concetto di infermità mentale
totale, negli anni trenta, venne in aiuto alla parziale risoluzione del
problema, e la sentenza che segue è indicativa.
Nell'ottobre del 1932 la donna a cui si riferisce il giudizio si era
resa responsabile di oltraggio, violenza e resistenza agli agenti della
forza pubblica, rivolgendosi a due agenti di Pubblica Sicurezza con la
frase "Vigliacchi, figli di mignotta", in evidente stato di ubriachezza,
anzi, come la sentenza riporta, "più che ubriaca in preda ad eccitamento
ed esaltazione". La cosa era scandalosa innanzitutto per il pubblico
turbamento: ella viene descritta "gettata a terra tra lo schiamazzo della
ragazzaglia", e già denunciata "moltissime volte per ubriachezza mole-
sta e ripugnante sulla pubblica via". Inoltre l'offesa verso i militi non
poteva che giustificarsi con uno stato alterato della coscienza che impediva le capacità di autodeterminarsi, in quanto a nessuno sarebbe potuto venire in mente di offendere con tanta mancanza di rispetto le forze dell'ordine. In più la rea era donna, e tale condizione era ancor più vergognosa e scandalosa, probabilmente, che se fosse stato un uomo. L'applicazione della misura di sicurezza m quindi automatica, nemmeno il Pubblico Ministero si oppose, anzi, favorì il riconoscimento di una condizione delittuosa che, se la donna fosse stata giudicata sana, avrebbe richiesto pochissimi mesi di arresto, considerando i precedenti. In realtà le fu ordinato il ricovero in Manicomio Giudiziario per due anni, "per scopo profilattico e curativo", con una rapidità di giudizio, evidenziabile anche dalla sintesi della sentenza, che in maniera sbrigativa risolse il caso con buona pace di tutti. Era una alcolista cronica, offendeva l'onore e il prestigio della forza pubblica, si faceva schiamazzare dalla ragazzaglia, insomma un buon caso da risolvere applicando la legge e, infine, rimuovendo il problema: non vi furono attenuanti, e non fu praticata neanche una perizia psichiatrica per la valutazione della capacità di intendere e volere al momento del fatto, ma ci si basò, sbrigativamente, sui precedenti e sul racconto dei militi che avevano provveduto all’arresto. Non era una sentenza impegnativa, nessuno si sarebbe opposto alla sua applicazione, lei era una poveraccia ed era meglio chiudere il caso: così come fu per la donna, che, per inciso, morì, per cause imprecisate, durante la sua degenza nel Manicomio Giudiziario di Aversa.
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La Sentenza:

Assolve Rosa Laurenti per totale infermità di mente e ne ordina il ricovero in manicomio giudiziario per anni due.
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Il ladro di elemosine

II senso e il controsenso dell'utilizzo del Manicomio Giudiziario vengono evidenziati con sufficiente crudezza dal caso che segue e dalle sue
conseguenze. Il protagonista è un venticinquenne lombardo che aveva
subito già due ricoveri all'Ospedale Psichiatrico di Mombello, per
lunghi periodi, con una diagnosi di frenastenia, nei due anni precedenti
il delitto per cui nella sentenza viene giudicato.
In un pomeriggio autunnale del 1937 egli si infilò nella chiesa
dell'ospedale psichiatrico in cui era stato degente sino al marzo dello
stesso anno e scassinò la cassetta delle elemosine, rubando poche lire e fuggendo in bicicletta verso il padiglione dell'osservazione dello stesso
istituto, dove fu fermato e arrestato, in quanto una donna che pregava
in chiesa aveva visto tutto e aveva dato l'allarme. La sentenza del
Tribunale di Milano, qui riportata, fu sbrigativa: la flagranza, il possesso della refurtiva, le deposizioni dei testimoni, e la sua stessa confessione non davano dubbi ne sul reato (furto aggravato), ne sull'autore, che fu inoltre riconosciuto anche dal direttore dell'istituto psichiatrico in cui aveva commesso il reato e in cui era stato ospite, il quale diede notizie sui pregressi psicopatologici del reo.
Non servì quindi una perizia psichiatrica per riconoscere una patologia che produsse una sentenza in cui vennero valutati il vizio parziale di mente e la sua pericolosità sociale, in quanto “quando i centri inibitori non funzionano egli è incline al delitto", così come recita la sentenza; riconoscendo comunque la attenuante della speciale tenuità del danno patrimoniale (9,25 lire).
Al periodo di detenzione, considerato con le attenuanti nel periodo di un anno e quattro mesi (oltre a mille e quattrocento lire di multa), fu
associata l'applicazione di sei mesi di Casa di Cura e Custodia, al
termine della quale, rivalutata la pericolosità sociale, egli sarebbe dovuto tornare in libertà. Giunse ad Aversa per scontare i sei mesi di
condanna ai primi dell'aprile del 1939, dopo il periodo di carcerazione,
e lì rimase sino al 25 febbraio del 1944, anno in cui morì per una
enterite, forse, mal curata, così come risulta dalla cartella clinica dell'istituto. Dal momento che la sua pericolosità sociale, così come la sua frenastenia, non presentavano sintomi di remissione, lo sciagurato subì sette continuative proroghe della misura di sicurezza, e dal momento che non esistevano parenti che lo richiedevano, trascorse gli ultimi anni della sua vita nell'istituto aversano.
Il furto delle elemosine in chiesa fu pagato assai duramente dal
giovane, ma anche in questo caso fu punito non l'atto, riprovevole
quanto si vuole, ma la patologia da cui egli era affetto e che procurava
notevole allarme sociale: un individuo del genere sarebbe stato capace
di qualsiasi azione, ragionò probabilmente il giudice, viste anche le
scarse qualità morali del soggetto, reo di un delitto sacrilego, e viste le
scarse possibilità di cura e di controllo. Il Manicomio Giudiziario
apparve come la soluzione più semplice per escludere l'uomo, ma
anche l'idea della sua disperazione, giunta a rubare le elemosine della
Madonna.
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La Sentenza:

Il Tribunale dichiara Luigi Vigano colpevole e con la concessione delle attenuanti generiche sulla tenuità del danno patrimoniale e con la diminuente del vizio parziale di mente ad un anno e quattro mesi di reclusione. Ordina inoltre che a pena espiata sia ricoverato in una casa di cura e custodia.
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La prostituta arrabbiata


La sentenza che segue è quella espressa nel 1933 dalla Corte d’Appello di Firenze, a cui si era rivolta la protagonista della storia, una prostituta accusata di essersi carnalmente congiunta in un portone con un cliente, a cui aveva anche rubato un borsellino con dentro sei lire, approfittando del momento di piacere e di disattenzione dell’uomo. Il tribunale, in prima istanza, aveva già condannato la donna a quasi nove mesi di reclusione e a una pena pecuniaria. L’avvocato difensore ritenne opportuno proporre appello, in quanto il tribunale non aveva valutato le attenuanti della incapacità di intendere e di volere date dalla minorazione psichica che la donna avrebbe avuto e che avrebbe dovuto produrre una sentenza che valutasse la seminfermità, con la consequenziale riduzione della pena ad almeno la metà di quella irrogata. In effetti la donna aveva una fedina penale sufficientemente compromessa: aveva, già dalla giovane età, riportato oltre a una condanna per furto, ben otto condanne per adescamento al libertinaggio, e nove per oltraggio. Inoltre aveva subito quattro precedenti ricoveri al manicomio civile di Firenze, affidandola alla custodia domestica del padre, che non mostrò alcuna efficacia nel compito assegnatogli. La Corte d’Appello, in effetti, non solo prese benevolmente in considerazione le istanze poste dalla difesa, anzi, ne fece il punto di partenza per il riconoscimento non di una seminfermità, così come richiesto, ma riconobbe una totale mancanza delle capacità di intendere e di volere, assolvendola dalle imputazioni, ma nel contempo irrogandole un periodo di almeno due anni da trascorrere nel Manicomio Criminale, insomma più che raddoppiandole il periodo di esclusione sociale. Il corpo della sentenza esprime una ulteriore possibilità che il codice in vigore dava per ridurre il rischio di allarme sociale in tema di moralità pubblica: un reato risolvibile in pochi mesi di detenzione diventa invece la dimostrazione di una patologia psichiatrica, influenzante l'etica della donna e della società, per cui, accettando di buon grado le istanze della difesa e anzi dando eccessiva importanza alla patologia, si provvide all'applicazione della misura di sicurezza detentiva certamente sproporzionata al reato. Anche non valutando le condizioni psichiche della donna (non fu effettuata alcuna perizia psichiatrica), le si riconobbe una capacità giuridica che con sforzo assai fantastico doveva essere annullata. La dinamica del delitto del resto era sufficientemente chiara: l'uomo, verso cui non si procedette per il reato di atti osceni in quanto amnistiato, si era nascosto in un portone con il consenso della donna
che così esplicitava il suo lavoro di meretrice, e il borsellino con la
somma esigua era stato, sì, trafugato durante l'amplesso, avvenuto
probabilmente in piedi, ma era stato restituito al legittimo proprietario
dopo che quest'ultimo, accortosi del danno, ne aveva preteso la restituzione: anche se questa era avvenuta "gettando il borsellino con disprezzo per terra", come nel corpo della sentenza viene riportato. Insomma non apparivano per nulla condizioni che potessero inficiare i comportamenti della donna individuabili nel campo psichiatrico, e l'unica condizione era data dai precedenti psichici assai dubbi, di questa, riconosciuta affetta da un disturbo che all'epoca faceva parte delle patologie psichiche, genericamente definita immoralità costituzionale. Evidentemente la Corte usò questo espediente, ingenuamente proposto dalla difesa, per risolvere strategicamente la questione: chi è meretrice ha una instabilità psichica che ricade sulla morale; la cura
rappresenta una soluzione (che tra l'altro evita per un po' che il problema si ripeta) e l'etica è salva con buona pace di una società che si propone come innovativa. Chi rimase incastrata da tale interpretazione, infine, fu proprio la donna, l’elemento debole di tutta la vicenda, che nei due anni successivi di manicomio giudiziario, a osservare la cartella clinica di tale ricovero, manifestò ribellione, atteggiamenti violenti, e una irritazione sempre pronta a esplodere: e forse, ne aveva ben ragione.
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La Sentenza:

Assolve Flora Del Bene da ogni accusa e ne ordina il ricovero in un manicomio giudiziario.
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Il figlio gettato

II caso di una madre che uccide il figlio di pochi mesi gettandolo da una
finestra di un appartamento al Vomero è quello che segue. Vengono
riportati integralmente sia la sentenza di primo grado, sia la sentenza
dell’appello, pochi mesi dopo, richiesto dal marito. Questi, successiva-
mente, come viene indicato nella cartella clinica dell’Istituto in cui la
donna sarà ospite, sarà il garante della sua liberazione, accogliendola in
affidamento presso di lui. In questo caso il primo giudice, il giudice
istruttore del Tribunale di Napoli, ha pochi dubbi e li risolve rapidamente affidando a un alienista la perizia psichiatrica che diagnostica
una “sindrome depressiva angosciosa”, probabilmente una depressione
post partum, visto che la sintomatologia era apparsa da pochi mesi, e sei mesi era l’età del bimbo ucciso. La perizia inoltre confermava che tale stato psichico era da relazionarsi a un decadimento fisico consequenziale al puerperio e a febbri intestinali, e sosteneva la pericolosità sociale al momento dell’indagine. Che le condizioni psichiche della donna non fossero buone, del resto, era nozione dedotta anche da quello che successivamente al delitto era accaduto: il ricovero immediato dell’omicida all’ospedale psichiatrico civile, con il successivo mutismo della donna che si limitava a ripetere la stessa frase indicativa di un tradimento che avrebbe effettuato verso la famiglia. Tutto ciò influenza il giudice e la sentenza, che commenta: “fin dal primo momento apparve chiaro che una madre non poteva uccidere la sua creatura se non in uno stato di piena e completa incoscienza e denunzia", e le applica la misura di sicurezza di
dieci anni di Manicomio Giudiziario al posto dell'ergastolo che avrebbe
dovuto irrogare.
La non imputabilità non fu però condivisa dal marito, probabilmente ancora troppo risentito verso la donna che gli aveva ucciso un figlio, e che evidentemente riteneva il periodo di dieci anni da trascorrere al manicomio criminale poca cosa rispetto alla pena dell'ergastolo che avrebbe desiderato vedere erogato alla coniuge. Con ogni probabilità egli, davanti a un reato tanto efferato in cui era personalmente coinvolto, riteneva di non poter giustificare la donna con la malattia, ipotizzando quindi una condizione delittuosa voluta e decisa nel pieno suo intendimento.
La Corte d'Appello, al ricorso proposto dal marito il
6 maggio del 1932, data stessa della sentenza, rispose con una sentenza del 6 giugno dello stesso anno, con un tempismo oggi non realizzabile né ipotizzabile, ma probabilmente anche troppo vicina alla sentenza di primo grado, e troppo influenzata da essa per una riflessione diversa.
Nel "Fatto", comunque, la sentenza ripercorre più approfonditamente la storia della donna, riportando che la stessa, prima del delitto, già era stata fatta visitare da più medici specialisti, che era stata affidata a una
infermiera che la sorvegliasse, e che, addirittura, erano state "assicurate
le imposte dell'appartamento della sua abitazione, al Vomero". Evidentemente la patologia della donna, che produceva pulsioni auto ed etero-aggressive, era già nota, ed erano state adottate precauzioni e accorgimenti che prendevano in considerazione seriamente il suo malessere. E la perizia psichiatrica già espletata viene ritenuta sufficiente dalla Corte, che si riferisce a essa integralmente.
Nel riportare alcune notizie anamnestiche, rileva che la donna
"durante il matrimonio in meno di otto anni ha avuto cinque figli" e
che sin dalla prima gestazione presentava dei sintomi divenuti sempre
più insistenti nelle gravidanze successive. Soffermandosi sul concetto di
temporanea o costante assenza della capacità di intendere e di volere,
riconosce la non transitorietà dell'alterazione psichica. E quindi con-
ferma la sentenza di primo grado.
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La sentenza:

Non doversi procedere a carico di Maria Grazia Minervini perché si tratta di persona non imputabile per infermità di mente. Ordina che la Minervini sia ricoverata in un manicomio giudiziario per la durata di anni dieci.
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Gli amanti di S. Spirito


Questa è apparentemente solo una storia di corna, con amanti tra amici di famiglia e incontri segreti in camera mobiliata. Con finale colpo di pistola che uccide la donna e successivo costituirsi dell'assassino alla locale caserma dei carabinieri. Il riconoscimento in sentenza, infine, della parziale incapacità di intendere da parte dell'uomo e il suo affidamento al manicomio criminale. Ma qui il male, per quanto concerne il collegio giudicante, non è quello che uccide, ma quello che viene ucciso, rappresentato dalla donna mangiatrice di uomini e fondamentalmente puttana, tanto da ridurre

 
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