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CASERTA, RACKET DELLA PROSTITUZIONE: INTERVISTA A SUOR RITA GIARETTA


CASERTA - (di Luca Kocci) - “Donne che incontrano altre donne”: con questa immagine, suor Rita Giaretta racconta oltre dieci anni di lavoro di Casa Rut, la comunità di suore Orsoline del S. Cuore di Maria che, a Caserta, lavora con le donne straniere ridotte in schiavitù e vittime dello sfruttamento sessuale. Una storia iniziata nell’ottobre del 1995, con l’arrivo nel capoluogo campano e il lavoro nel carcere femminile che però, poco dopo, viene chiuso. “Allora abbiamo incominciato a girare per le strade del casertano – spiega suor Rita –, abbiamo incontrato queste persone sulla strada e ci siamo interrogate, come donne. Volevamo conoscere e capire come poter intervenire. Ci chiedevamo cosa spingesse delle ragazze giovanissime a lasciare la propria casa, il proprio Paese e a finire sulla strada. E così, l’8 marzo del 1997, siamo scese anche noi in strada ad incontrare queste persone, fra mille paure e circondate da gente che ci scoraggiava, che ci metteva in guardia dai pericoli, dalla criminalità. Ed è stato un incontro per noi sconvolgente, fatto di volti che ci venivano incontro dicendoci ‘no buono questo lavoro’ e che ci chiedevano di ritornare. Da questi incontri sulla strada è nata Casa Rut: uno spazio di accoglienza e una possibilità concreta di riscatto per coloro che ci chiedevano di aiutarle a lasciare la strada”. E da qualche anno anche una cooperativa sociale di lavoro – neWhope – dove le ragazze creano vari manufatti: borse, zaini, porta documenti, casacche con tessuti etnici africani e dell’est Europa. Anche se il lavoro, chiave di volta per un reale processo di liberazione, le donne che si sono liberate dalla schiavitù lo cercano soprattutto in altre zone, spesso nelle fabbriche del Nord. La storia di Casa Rut e delle donne che la fanno vivere è ora diventata un libro (Rita Giaretta, Non più schiave, Marlin Editore, Cava dei Tirreni, 2007; pp. 160, euro 12, acquistabile anche presso Adista) in cui “le parole delle donne moldave, polacche, albanesi, nigeriane, marocchine – scrive Dacia Maraini nell’introduzione – sono altrettanti indici puntati contro l’ipocrisia di una società, la nostra, che tratta il fenomeno della prostituzione come un problema di ordine pubblico e contro un mondo in cui la violenza patriarcale sulle donne continua a essere ovunque all’ordine del giorno”. Adista ha intervistato suor Rita Giaretta, autrice del libro e responsabile di Casa Rut. (luca kocci) D: Nel libro si raccontano storie di donne ridotte a merce: comprate, vendute, violentate, usate... Eppure spesso si parla della prostituzione come problema di ordine pubblico e di decoro, come se le donne costrette alla strada siano le colpevoli e non le vittime. Quanta consapevolezza c’è, nella società e nella Chiesa, che le donne costrette alla strada non sono colpevoli ma sono soprattutto vittime? R: È una consapevolezza molto limitata. Si intuisce che c’è un problema di questo tipo – anche se spesso la donna viene ancora vista come quella che sceglie la strada – ma è una consapevolezza che sfiora solo le persone, che non va ad incidere sulla coscienza, sul cuore, sulla riflessione e sui comportamenti. La Chiesa potrebbe fare molto per educare ed informare, ma mi sembra che il tema prostituzione, forse perché associato al sesso, sia lasciato ai margini. D: Scrivi che c’è un “preoccupante calo di attenzione, a livello politico e sociale, nei confronti della lotta alla tratta, mentre si è innalzato il livello di rigidità nei confronti delle donne ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi da parte delle istituzioni, in particolare delle varie Questure e Procure d’Italia”. Come mai? R: Perché crediamo che la principale preoccupazione delle istituzioni sia quella di garantire l’ordine, di offrire sicurezza alla cittadinanza. Senza dubbio c’è bisogno di sicurezza, ma se questa viene data mettendo in campo unicamente forme repressive, rendiamo due volte vittime queste donne. Io credo che si debba avere un giusto equilibrio fra esigenze di ordine e sicurezza e necessità di intervenire per aggredire questa piaga infame che rende le donne schiave. Le retate, da sole, non risolvono il problema, lo spostano solamente. È necessario saldare questi percorsi: esigenze di sicurezza, ma anche - e primariamente - necessità di tutela e di riconoscimento dei diritti. D: Nel 2000, in pieno Giubileo, il vescovo di Caserta mons. Nogaro scrisse una lettera al “fratello cliente” - riportata nel libro - senza usare nessuna indulgenza nei confronti di chi abitualmente gode di maggiore comprensione, ma che invece è complice del meccanismo di mercificazione. Inoltre, molto spesso, il cliente è marito e padre cattolico: non ti pare questo, piuttosto che le coppie di fatto, un indizio della crisi della famiglie? R: Io credo che oggi ci sia una crisi nell’identità maschile, e anche per questo si colpevolizza di più la donna. C’è una cultura maschilista ancora molto forte, soprattutto nella Chiesa, che rende più difficile mettere in discussione dei modelli educativi, formativi e di relazione fra uomo e donna, che l’uomo ha sempre vissuto nella sua pretesa di dominio, di superiorità, di potere. Quando l’uomo tira fuori il denaro per pagare la prestazione, intende esprimere questo potere: io ti acquisto, tu sei mia, io posso esercitare fino in fondo il mio dominio. Probabilmente in noi donne, anche grazie alle battaglie del femminismo, c’è sempre stato un fermento, una ricerca, un bisogno di capirci, di comprenderci nella nostra identità femminile. L’uomo fa più fatica a mettersi in ricerca e in discussione, mentre credo che oggi abbia bisogno di riflettere per passare da modelli stereotipati e preconfezionati a nuove forme di relazione. È uno spazio nuovo che si può aprire, anche nell’ambito della famiglia: non proporre sempre quel modello da difendere, ma avere il coraggio di mettersi in ricerca e in discussione per trovare nuovi stili di relazioni paritarie, libere e liberanti. D: Quali sono i meccanismi che portano una donna sulla strada? R: Le ragazze africane, che arrivano soprattutto dalla Nigeria, vengono avvicinate nei loro villaggi – spesso da amici, a volte anche da familiari, dai fratelli, perché in situazione di poligamia ci sono molti fratelli – e viene offerta loro una possibilità di lavoro ben pagato in Italia, per lo più come parrucchiere, per fare treccine. Partono quindi con una possibilità di riscatto, per se stesse e per la propria famiglia. Vengono procurati loro dei documenti e poi si mettono in viaggio, sia attraverso il deserto – ed è un viaggio lungo e drammatico – sia direttamente in aereo. Arrivate in Italia si trovano con un debito sulle spalle di 40-60 mila euro, che loro ignoravano del tutto (non sono a conoscenza del valore che hanno i soldi in Italia) e che viene subito richiesto di pagare. A questo punto entra in gioco la figura della maman, che è la loro sfruttatrice e quella a cui va risarcito il debito. Molto spesso, prima di partire, sono sottoposte ad un rito woo-doo che le condiziona pesantemente. D: In cosa consiste? R: Vengono prelevati dei peli, dei capelli, degli indumenti intimi e, con un particolare rito, viene stipulato una sorta di patto, spesso ripetuto all’ arrivo in Italia: la ragazza deve giurare di risarcire il debito – ma non ha assolutamente idea dell’entità di questo debito -, se non lo paga, o diventa pazza o muore. Le viene detto che da quel momento è abitata da uno spirito maligno che, se quel patto non viene rispettato, perseguiterà e punirà lei ed eventualmente anche i suoi familiari. La donna africana è completamente soggiogata da questo rito, la maman non avrebbe nemmeno bisogno di controllarla a vista sulla strada, sa già che è nelle sue mani, che non scapperà: è lo spirito che la controlla. Per questo con le ragazze africane lavoriamo molto anche sull’aspetto religioso: cerchiamo di dare loro degli strumenti, di fare dei gesti che trasmettano la forza per liberarsi dalle superstizioni e per aiutarle a comprendere che ciascuno può resistere e orientare la propria vita. D: Per le ragazze dell’est invece i meccanismi sono diversi? R: Le ragazze dell’Est, anch’esse attirate con il miraggio di un lavoro ben remunerato che potrebbe loro consentire di uscire dalla povertà e di riscattare la propria difficile condizione femminile, sono sottoposte esclusivamente a violenza fisica, a un controllo stringente e continuo da parte dei loro sfruttatori, e molte di loro sono costrette a prostituirsi non più in strada, ma in appartamenti o in altri locali. D: Puntate alla liberazione di queste donne, ma spesso non si rischia di fare solo assistenzialismo? R: Il rischio, almeno all’inizio, era molto forte. E non è scomparso del tutto anche perché c’è una mentalità dominante, soprattutto nel nostro territorio, che invita a lavorare con forme assistenziali piuttosto che promozionali. Ma così non si esce mai dall’emergenza, perché le persone continuano a rimanere nel bisogno e a sostituire una dipendenza ad un’altra. Potevamo creare una grande struttura dove fare assistenza, accogliere tante persone, dare da mangiare, da dormire, ma abbiamo scelto di fare altro: percorsi di integrazione e di liberazione personalizzati che coinvolgano un numero limitato di persone che il territorio sia in grado di sostenere. Abbiamo ricevuto molte proposte di cittadini – medici, avvocati, insegnanti –, che volevano fare volontariato dentro Casa Rut, ma noi siamo state sempre molto restie, perché crediamo che sia il territorio a dover dare queste risposte: perché il medico deve lavorare dentro Casa Rut se c’è l’Asl che si occupa della salute delle persone, di tutte le persone? Perché la scuola dobbiamo crearla qui dentro, quando c’è la scuola pubblica? Noi lavoriamo con loro, collaboriamo per dei percorsi mirati, ma deve essere la struttura pubblica a farsi carico delle situazioni e dare un servizio, una risposta. Casa Rut deve essere solo una “casa”, vogliamo che le ragazze escano, che vivano il territorio, la città, che si sentano come tutti. Questa è integrazione. D: Però la logica del favore incombe sempre... R: Certamente, ma abbiamo lavorato e continuiamo a farlo per superare la logica del favore, sempre presente nell’assistenzialismo: siete bravi, vi aiutiamo per questa persona. No, non è un aiuto, un favore per tale persona. Noi dobbiamo lavorare e lottare per i diritti delle persone, anche aiutando la politica e le istituzioni a comprendere che hanno il dovere di amministrare una città e che il denaro pubblico serve per far funzionare i servizi. E io non devo sentirmi obbligata a dire grazie, non devo inchinarmi, perché chiedo il riconoscimento e il rispetto di un diritto. Le logiche dell’assistenza, dell’emergenza, del favore clientelare sono sempre, secondo me, dei cappi al collo che tengono le persone nella dipendenza. (da Adista del 2 luglio 2007-19:20)

 
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