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LO SCANDALO DELL'OPG DI AVERSA APPRODA SULLA PRIMA DEL CORRIERE DELLA SERA

Dopo l'interrogazione parlamentare pubblicata ai primi di marzo su Casertasette.com; l'articolo sul viaggio choc nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa pubblicato dal mensile Caserta Ieri&Oggi a firma di B.S. (in edicola dal 2 aprile) e i casi di decesso - per Hiv e suicidio - verificatisi tra lo scorso marzo e pochi giorni fa, oggi il Corriere della Sera, in prima pagina, con il suo inviato, ci racconta dello 'schifo' dell'Opg casertano. E viene citata anche l'interrogazione di Caruso (Prc) vedi qui e vedi qui


AVERSA (Caserta) — (di Fulvio Bufi dal Corriere della Sera di mercoledi 18 aprile 2007) - Il letto dove dormiva Salvatore è una delle sei brandine gialle nella cella in fondo al corridoio al primo piano della staccata. Ora non ci dorme nessuno, non c'è più nemmeno il materasso. Qualche giorno fa Salvatore a quella brandina ci ha annodato un pezzo di lenzuolo, quando ha deciso di uscirsene da qui a piedi avanti. E ci è riuscito. Perché non è vero che quando uno si impicca è la forza di gravità che fa stringere il nodo scorsoio e spezzare l'osso del collo. Può essere pure la forza di volontà. Salvatore quella forza l'ha avuta. Un capo del lenzuolo annodato alla branda, l'altro alla gola. E poi un tuffo in avanti. Solo che così non finisce in un attimo. Ci vuole tempo per morire in questo modo. Salvatore respirava ancora quando i sorveglianti lo hanno visto e hanno aperto la porta della cella. Era pazzo Salvatore. Pazzo criminale. È inutile cercare altre parole quando la vita di quelli come lui è lasciata scorrere senza speranza in un posto che si chiama ospedale — ospedale psichiatrico giudiziario — ma che alla fine non è diverso da un manicomio. Salvatore era uno dei trecento reclusi dell'Opg di Aversa — che ne potrebbe ospitare al massimo 170 — dove negli ultimi mesi ci sono stati tre suicidi e due morti per Aids. La sezione dove stava lui la chiamano la staccata, perché è separata dal resto dell'istituto e ci stanno quelli messi peggio. L'ultima stanza dell'ultimo piano è anche l'ultimo stadio dell'incubo: due metri per quattro con tre letti uno accanto all'altro. Letti speciali, ai lati i ganci per le cinghie, al centro un buco. Chi perde il controllo e non si calma nemmeno con i farmaci finisce là sopra. Resta immobilizzato finché il medico non dà l'ok a tirarlo giù. Se gli scoppia la pancia la fa attraverso quel buco, se ha un dolore alla schiena o un prurito sulla fronte se li tiene. Il deputato di Rifondazione Francesco Caruso viene spesso a vedere come vanno le cose qui dentro. Ha fatto interpellanze al Guardasigilli Clemente Mastella, sta cercando di portare la commissione Affari sociali a fare ispezioni ad Aversa e negli altri cinque ospedali come questo che esistono in Italia, punta a una legge che chiuda definitivamente gli Opg. Accompagnarlo significa passarsi in rassegna la stanza dove è morto Salvatore e la staccata egli altri reparti e l'infermeria, e spulciare il registro dove sono annotate le contenzioni. L'ultima è toccata a Giampiero, che ha tentato di ammazzarsi quando ha capito che la ragazza di cui è innamorato non avrebbe mai risposto alle sue lettere. Lo hanno tenuto lì un paio di giorni. Adesso ne parla quasi come se non ci fosse stato lui legato su quel letto infame: «E che dovevano fare? Non mi calmavo con niente. Ora no, ora sto meglio, ora sono tranquillo». Gli trema appena la palpebra, mentre racconta, ma è normale. Non è mica davvero tranquillo, Giampiero. Non lo è lui e non lo sono gli altri reclusi. Solo che la maggior parte non sono nemmeno più socialmente pericolosi. Su negli uffici è pieno di relazioni positive firmate dagli psichiatri del centro. Il direttore Adolfo Ferraro ha quantificato nel 60 per cento dei detenuti quelli che potrebbero uscire se ci fossero fuori strutture adatte ad accoglierli e curarli. Ma le Asl non sono in grado di occuparsene, oppure non vogliono. E comunque un recluso in Opg costa 600 euro all'anno, fuori ne costerebbe circa ventimila. E così pure a pena scontata, spesso al giudice di sorveglianza non resta altro che applicare la proroga della reclusione. Lo chiamano ergastolo bianco, nessuno sa quando finirà. Alla 'staccata' c'è uno che si chiama Luigi, ha una quarantina d'anni, lo chiusero qui che era giovanissimo perché al suo paese dava fastidio alle ragazze e menava i ragazzi. Non se ne è mai più andato. Non si ricorda nemmeno più quale era il suo paese e non sa quanto tempo ha passato qui dentro. Il suo compagno di cella, un toscano che prima di arrivare ad Aversa ha girato una decina di carceri e un paio di Opg, lo tratta come un fratello, una volta se l'è portato pure fuori in permesso. Luigi non chiede quando uscirà un'altra volta, non chiede se uscirà mai. Chiede solo le sigarette, è capace di consumarne una con quattro o cinque boccate. Fuma e basta, Luigi. Peppino invece no, lui vuole andarsene. Ha 42 anni e ne dimostra almeno dieci in più. Indossa un vestito grigio con il panciotto e le scarpe bianche. Corre in cella a prendere la sentenza di proroga della detenzione e se la rigira tra le mani. Dice: «Io a Roma ho la mia casa, le mie cose, il mio lavoro. Ho pure un poco di soldini in banca». Chissà che troverebbe di tutto questo, se ci tornasse davvero a Roma. Sta qui da tredici anni, da quando lo presero ubriaco mentre faceva a pezzi un telefono della stazione Termini. Tredici anni per un danneggiamento. Rinaldo invece ha ucciso, ma adesso ha 81 anni e vorrebbe andarsene a morire a casa sua a Frosinone. È l'unico che sta in cella da solo, «perché qui sono tutti pazzi e scemi e io con i pazzi e gli scemi non ci voglio stare». Poi va a prendere una sagoma di cartone a forma di violino e dice: «Vedi, sono un liutaio, mica sono uno qualsiasi, io». Ognuno in questo manicomio ha a suo modo una storia straordinaria da raccontare. Storie di assassini disperati, ladri disperati, rissaioli disperati. Comunque storie di disperati. E nel momento del passeggio nel cortile della staccata —un posto che trent'anni fa chiamavano «lo zoo» — quelle storie ti assalgono tutte insieme. Giuseppe chiede aiuto perché ha un avvocato che si è dimenticato di lui, Anselmo perché «a me mi ha condannato un giudice russo, ma io non ce l'ho con la Russia», Giovanni perché vuole andare in comunità e perché non ha nemmeno le scarpe e nessun parente e nessun dente e non si capisce neanche tanto bene quello che dice. Poi però sì, che si capisce: «Peggio delle bestie», ripete ossessivamente, e si comprende anche perché dica così. «Peggio delle bestie», insiste Giovanni, e si avvia di corsa verso i gabinetti in fondo al cortile. Ecco che intendeva: cumuli di feci sul pavimento, piscio dappertutto, mosche, una puzza che manco a dirlo. Toglie l'unica illusione Giovanni, con quella sua voce che si perde nel naso e nella bocca vuota. Sembrava almeno un posto pulito l'Opg di Aversa. Invece fa pure schifo.

 
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