I quotidiani Roma e Il Tempo del 28 giugno - in alcuni articoli a firma Roberto Paolo - riferiscono del rigetto da parte di Strasburgo di un ricorso contro il 41 bis che aveva presentato il boss Sandokan. Notizia ripresa oggi da alcuni quotidiani locali
NAPOLI (dal quotidiano Roma del 28 giugno 2008) - Il regime del 41bis, il famigerato "carcere duro", non è una
tortura e non lede i diritti fondamentali dell'uomo. Lo ha stabilito la
Corte europea dei diritti umani in una causa che vedeva protagonisti
eccellenti: nientemeno che Francesco "Sandokan" Schiavone contro lo
Stato italiano. Il capo indiscusso del clan dei Casalesi, la cosca di
camorra più agguerrita e pericolosa, si è visto respingere dai giudici
di Strasburgo un ricorso intentato contro lo strumento più temuto dai
boss in galera, l'isolamento ferreo da parenti e fedelissimi, il divieto
assoluto di comunicazione anche all'interno delle strutture carcerarie,
quel "carcere duro" definito da molti una pietra tombale, perché
equivalente secondo molti padrini ad una condanna a morte. Un regime di
detenzione che si è attirato anche gli strali di molte associazioni e di
qualche partito politico, con proposte di legge e campagne di stampa
tese alla sua abolizione.
Il boss Francesco Schiavone ha fatto appello alla Corte europea
lamentando che il regime di "carcere duro" violasse cinque norme
contenute nella Carta dei diritti dell'uomo, ed in particolare gli
articoli 3 (proibizione della tortura), 8 (diritto al rispetto della
vita privata e familiare), 14 (divieto di discriminazione), 9 (libertà
di pensiero, coscienza e religione) e 13 (diritto ad un ricorso
effettivo). Ma le toghe di Strasburgo gli hanno dato torto su tutta la
linea, dichiarando addirittura irricevibile il ricorso per manifesta
infondatezza delle doglianze.
Nei dettagli, secondo la Corte europea l'isolamento di fatto (Schiavone
era stato per mesi l'unico occupante di un'intera sezione del
penitenziario), la circostanza che lo spazio per la passeggiata fosse un
corridoio di 2,7 per 5,9 metri. le ispezioni corporali in occasione di
ogni partecipazione in videoconferenza alle udienze dei processi, o dopo
ciascun colloquio con avvocati o familiari stretti, non siano da
ritenere trattamenti contrari alla Convenzione sui diritti umani.
Inoltre, le strette limitazioni alle visite dei familiari «sono
necessarie ai fini dell'ordine e della sicurezza pubblica», e lo stesso
articolo 8 della Carta europea ammette tali limitazioni alla vita
privata e familiare.
Schiavone ha anche lamentato una disparità di trattamento rispetto ad
altri detenuti per gli stessi reati, e persino la violazione della
libertà di manifestare la propria religione. Aspetti questi che la Corte
ha ritenuto non provati: Schiavone non ha infatti dimostrato «di aver
mai espresso la volontà di partecipare alle funzioni religiose né di
essere stato a ciò impedito».
Un'altra vittoria dello Stato italiano sul boss di "Gomorra", dopo
quella incassata una settimana fa con la sentenza di appello del
maxiprocesso Spartacus contro il clan dei Casalesi che ha confermato la
condanna all'ergastolo, tra gli altri, anche per Francesco "Sandokan"
Schiavone. E la decisione di Strasburgo assume anche il valore di un
importante precedente anche nei confronti di eventuali ricorsi di altri
padrini di mafia e camorra.