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CASO FELTRI: CONDANNA DA RAPINATORE PER UN ARTICOLO NON SCRITTO


( di Vincenzo Vitale - Libero - 15 febbraio 2006) - La condanna di Vittorio Feltri a un anno e mezzo di carcere è davvero un'assurdità. E non solo per colpa di una legge che finisce per punire giornalisti peggio dei delinquenti, ma anche perchè rappresenta da sola una mostruosità giuridica. Vediamo perchè. Non essendo stato il difensore di Vittorio Feltri non ho avuto il piacere di conoscere il magistrato del Tribunale di Bologna che, su querela presentata dagli eredi del senatore comunista Gerardo Chiaromonte, ha pensato bene di condannare Feltri per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa, commesso al tempo (nel 1999) in cui egli collaborava con il Quotidiano Nazionale. Certo, c'è subito da evidenziare che se intento del Tribunale fosse stato quello di emettere una sentenza che potesse fungere da "esempio" a carico di un giornalista tradizionalmente estraneo ai cori ed alle mode - quale Feltri costituzionalmente è -, ebbene, il Tribunale è incorso in un clamoroso autogol. Infatti, nelle ultime ore, non c'è nessun esponente del mondo giornalistico o politico italiano che non solidarizzi con lui, esprimendo serie riserve sulla giustizia (perché, anche se spesso lo si dimentica, la sentenza, ogni sentenza ha da essere espressione di giustizia) di questa decisione del Tribunale bolognese. Innanzitutto, è da notare come il destinatario della querela fosse espressamente soltanto il direttore responsabile del "Resto del Carlino" (edizione bolognese del Qn), Gabriele Canè, oltre all'articolista ignoto ai querelanti ed a chiunque altro "risultasse responsabile dei fatti". Quali fatti? L'avere incluso il nome del senatore Chiaromonte - deceduto nel 1993 - fra quelli ricompresi nel celebre "dossier Mitrokin", vale a dire nell'elenco dei numerosi personaggi della vita pubblica avvicinati o avvicinabili dal Kgb, il potente e temuto servizio segreto sovietico. In altre parole, l'articolo era senza firma in quanto redazionale e comunque traduzione di larghi stralci di dossier, mentre il direttore "responsabile" - vale a dire espressamente indicato dalla legge come colui al quale è dovuto il controllo su ogni riga pubblicata- era Canè. Ora qui non interessa sapere se quel nome vi fosse o meno (la sentenza dice di no): interessa invece capire secondo quale logica (ammesso ce ne sia una) Feltri sia stato condannato. Si è detto che la querela non ne faceva neppure il nome. Come può essere allora che il Tribunale sia giunto a lui? Semplice: la legge prevede il c.d. effetto estensivo della querela, in forza del quale essa si estende a tutti coloro che avessero contribuito a commettere il reato (come del resto chiedevano i querelanti). Tuttavia, essendo l'articolo incriminato privo di firma e perciò ignoto il suo autore, allora non rimaneva che il direttore responsabile, imputabile per omesso controllo, vale a dire per un reato colposo e proprio: colposo, in quanto commesso per negligente controllo sull'operato dei suoi giornalisti; proprio, in quanto soltanto lui, nel suo specifico, avrebbe potuto commetterlo, non altri: e di qui, l'imputazione a carico di Canè (del resto espressamente citato dai querelanti). E Feltri? Feltri entra probabilmente in scena quasi per un gioco di prestigio, quello stesso gioco di prestigio in virtù del quale invece Canè ne esce, finendo con l'essere assolto. Il Tribunale, su richiesta espressa della Procura, ha condannato Feltri per concorso attivo nel reato, per avere cioè partecipato dolosamente alla redazione del pezzo facendo sì che il suo ignoto autore vi includesse espressamente il nome di Chiaromonte. Ve la immaginate la scenetta? L'ignoto redattore che si nega riottoso, mentre Feltri, suadente e maligno, lo convince ad inserire quel nome, quel nome soltanto, quello di Chiaromonte. Non c'è che dire: siamo orami al surreale, ad una dimensione cioè dove le norme, il diritto, la giustizia, le prove, tutto il corredo di categorie giuridiche umane ed umanizzanti delle quali ripetiamo le litanie nelle aule universitarie sembra come svanire nel sogno trasfigurarsi in qualcosa di impalpabile, al punto da dubitare esistano ancora e che ancora valga la pena invocarle. Naturalmente, mentre Feltri si dava a delinquere insieme all'ignoto articolista, il direttore responsabile Canè, nulla poteva sapere né, a maggior titolo, controllare, ragion per cui la sua assoluzione si imponeva: forse era uscito a sorbire un caffè o litigava al telefono con la moglie, senza accorgersi del delitto che si tramava a pochi passi da lui. Certo, forse il Tribunale avrà qualche inciampo, in quanto dovrà spiegare come abbia fatto a raggiungere la certezza - che la Cassazione richiede - che Feltri abbia voluto la pubblicazione del nome specifico di Chiaromonte nella piena e deliberata consapevolezza di aggredirne la reputazione attraverso la stampa: come avrà fatto a saperlo? L'avrà forse confessato un pentito? O forse l'avrà fatto intendere Canè? Mistero. Il fatto è che senza questa prova piena e specifica, vale a dire senza la prova della piena e personale consapevolezza e della effettiva volontà di Feltri nell'offendere la memoria del senatore comunista, la sentenza del Tribunale di Bologna non è un atto di giustizia, ma soltanto un atto di imperio; e per di più eccessivo, perché fuori misura nell'irrogare una pena che oggi non si infligge neppure ad un rapinatore mezzo pentito e che mai ha avuto pari per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Di qui, oltre la perplessità, la preoccupazione: non solo per Feltri che appellerà, ma per ciascuno di noi, cittadini di questa stranissima repubblica ove purtroppo il giustizialismo di pochi può ben oltre la probità di molti.

 
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