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GIUSTIZIA, RUOLO DEI PENTITI. AZIONE PENALE OBBLIGATORIA (CALUNNIA) SE MENTONO


EDITORIALE (a cura dell' avvocato Mariano Omarto - Penalista foro di Santa Maria Capua Vetere) - Per un soggetto che intenda avviare la collaborazione con la giustizia, la legge prevede un termine tassativo(180 gg.), nel corso del quale lo stesso dovrà rivoltare la sua vita criminale come un calzino e raccontare quindi tutte le sue malefatte, nonché quelle commesse da altri di cui sia venuto a conoscenza per il solo fatto della militanza in un determinato sodalizio malavitoso.E’ fuor di dubbio che il “pentito”, assunta tale qualità, assume con le sue dichiarazioni delle responsabilità penali e civili poiché, le sue, nel momento in cui indica tizio piuttosto che caio,vuoi come responsabile di una rapina, vuoi per un omicidio, costituiscono delle accuse e quindi delle denunce qualificate poiché promanati da un soggetto che, spesso, ha partecipato lui stesso a quei delitti in quanto intraneo alla consorteria malavitosa. Dunque, la sua, tecnicamente, viene per questo definita dal diritto “chiamata in reità” o “chiamata in correità” a seconda del fatto che accusi taluno di un delitto a cui però lui non ha parte-cipato o in quanto proprio compartecipe. L’Ufficio che indaga e che ha raccolto nel citato termine queste dichiarazioni (Procura della Repubblica), ha un solo obbligo giuridico : avviare una fase di verifica delle dichiarazioni e quindi riscontrare le accuse che il collaborante ha reso nel citato lasso temporale. Ci si potrà chiedere, cosa succede quando una accusa di un c.d.g. non ha trovato un riscontro oggettivo nella realtà (es. : tizio, funzionario della Regione…,è stato corrotto poichè in cambio del regalo di una Fiat Croma, ha aggiustato la pratica ics..).Bene, mettiamo che l’esito dell’indagine e della verifica di tale accusa, fa emergere che il funzionario della Regione è sì in possesso di una Fiat Croma ma – interrogato sulle modalità di acquisto della stessa - abbia prodotto un regolare contratto di finanziamento acceso all’epoca dell’acquisto e tuttora in essere. Mettiamo inoltre che la pratica oggetto di presunto “aggiustamento”, in realtà non presenta anomalie e quindi è stata approvata avendone tutti i requisiti burocratici, formali e sostanziali, nessuna forzatura insomma. I più direbbero, semplice : manca il riscontro estrinseco, il P.M. è tenuto senz’altro ad archiviare l’accusa e quindi l’indagine nei confronti del funzionario della regione!. In parte è così ed è corretto, ma non ritengo sia tutto qui. Il Pubblico Ministero – a mio parere – ha un altro onere che è quello direttamente correlato all’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.),cioè esercitare l’azione penale nei confronti del pentito che quella accusa ha formulato poiché, alla luce dei citati esiti dei riscontri, si è concretizzato il delitto di calunnia!. Una cosa è quando manca il riscontro c.d. individualizzante, altra cosa quando il riscontro non solo manca ma è di segno contrario(vedi esempio del funzionario regionale). E’ in questo caso che il P.M. ha l’obbligo di iscriverlo nel registro degli indagati per l’ipotesi prevista e punita dall’art. 368 Codice Penale. Vediamo cosa contempla questa norma avuto riguardo al primo comma : “Chiunque con denunzia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad un’altra che a quella abbia obbligo di riferirne, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente,ovvero simula a carico di lui tracce di un reato,è punito con la reclusione da due a sei anni” Come dicevo, non è in discussione che le propalazioni di un collaboratore di giustizia durante i canonici 180 giorni siano delle denunce. Di partecipazioni ad associazioni criminali; di patti di corruttela; di cessione di stupefacenti; di omicidi etc..etc... Denunce riferite direttamente all’autorità giudiziaria durante i 180 gg. e che – per legge – ha l’obbligo di procedere e di avviare la c.d. “fase di indagine”. Il punto è, semmai, la prova della sussistenza dell’elemento intenzionale, del dolo generico, in quanto la norma lo prescrive tassativamente : chiunque incolpa di un reato taluno che egli sa innocente! . La questione, è interessante in quanto una cosa è dire : nel 1998 tizio ha ucciso caio! altra cosa è dire : mi risulta, che ad assassinare caio sia stato tizio, poiché l’ho appreso nell’ambiente! Ecco, nel primo caso, la dichiarazione (rectius l’accusa) del c.d.g. è diretta e senza esita-zione alcuna, dunque è sicuro ed è certo di ciò che afferma, in una sola parola, lo dice con coscienza e volontà; nel secondo caso, la titubanza, il dubbio, la notizia appresa nell’ambiente ma non direttamente, fornisce un connotato di incertezza all’accusa e che lo priva di quel necessario elemento intenzionale che deve connotare il reato di calunnia. Sul punto, ci viene in soccorso un esempio che ci deriva dalla realtà e dalla cronaca giudiziaria passata. Il giudice Giovanni Falcone, nel 1989, dopo aver proceduto a raccogliere delle dichiarazioni dal pentito Giuseppe Pellegritti circa l’omicidio dell’On. Mattarella, espletati i dovuti riscontri, lo indagò facendolo altresì condannare per calunnia. Cosa era successo. In pratica, il c.d.g. Pellegritti, a parte il movente, aveva indicato come killer dell’On. Mattarella delle persone che in realtà, a seguito dei riscontri, il giorno dell’omicidio, erano in carcere quindi certamente non in grado di nuocere nessuno. Orbene, tornando ai nostri tempi e nonostante la mia decennale esperienza professionale, non mi è ancora capitato di assistere un Pubblico Ministero esercitare così l’azione penale di fronte a casi analoghi. Voglio prendere in esame due casi di cronaca giudiziaria recente, letti sui quotidiani locali e che hanno investito il consigliere provinciale del PD Giuseppe Fiorillo e l’imprenditore Giovanni Cosentino. Entrambi accusati anni fa dal pentito Vassallo, il primo, di aver ottenuto in regalo un villetta da parte di malavitosi grazie ai servigi resi in favore del clan; il secondo, di essere entrato in società con tale Zaccariello per la gestione di un distributore di benzina. Entrambi gli accusati non risultano indagati poiché – desumo – che le citate accuse non abbiano trovato riscontro alcuno. Tuttavia, gli “accusati” hanno dato mandato a legali di fiducia di denunciare per calunnia e diffamazione il Vassallo per tali accuse. Innanzitutto, sul punto, mi viene rapidamente in mente la legge presunta “bavaglio” e mi rendo sempre più conto della grande conquista di civiltà che avrebbe costituito. Infatti, se fosse stata vigente, certamente notizie del genere, che non investono persone indagate, non sarebbero state pubblicate evitando quindi il loro pubblico ludibrio e la gogna mediatica cui sono stati esposti. Ma, poiché altro è il tema che mi occupa in questa sede, per tornare alle vicende che hanno investito il consigliere provinciale ed il signor Cosentino, come detto, hanno smentito e denunciato il collaboratore di giustizia, dimostrando, il primo, di aver acquistato la villetta con un regolare contratto di mutuo ipotecario; il secondo, con delle semplici visure camerali, ha dimostrato di non essere stato mai socio d’affari di tal Zaccariello. Notizie che, vista l’epoca in cui il Vassallo ha reso queste dichiarazioni(2005), erano già note agli inquirenti per aver già svolto – presumo – i dovuti accertamenti e riscontri. Il punto è, se il delitto di calunnia è reato procedibile di ufficio e se è vero, come è vero, che l’azione penale è obbligatoria perché non è stato l’ufficio di Procura a procedere nei suoi confronti?perchè attendere l’impulso della parte lesa che ha dovuto sporgere denuncia per simili nefandezze, tra l’altro, aggiungo, perché pubblicarle visto che gli “accusati” non risultano indagati? Certo, provo per un attimo a vestire la toga ed il ruolo del Pubblico Ministero e mi rendo perfettamente conto della difficoltà che avrebbe, in un aula giudiziaria, dover condurre dinanzi a Corti di Assise o Tribunali, collaboratori di giustizia che egli stesso ha perseguito per calunnia e “presentarli” come fonti di prova e di responsabilità penali di terzi soggetti imputati. La situazione sarebbe, per lui, abbastanza imbarazzante nel dover chiedere ai collegi giudicanti di credere alle accuse di quel “pentito” quando egli stesso, su altri specifici fatti, ha avuto la prova della menzogna tanto da perseguirlo per calunnia. Sarebbe una marchio indelebile, di formale delegittimazione che ne lederebbe alle fondamenta l’attendibilità soggettiva ma che, tuttavia, non può affatto esimerlo dall’esercizio dell’azione penale specie se quest’ultima – nel nostro Ordinamento – è ancora obbligatoria.

 
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